Mondiali, Argentina-Francia ci ha ricordato perché amiamo il calcio | L'Ultimo Uomo

2023-01-05 16:03:44 By : Mr. Spring Shao

Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche. In questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.

«Le finali non si giocano, si vincono». È una frase cinica e violenta, che ci è stata ripetuta da calciatori con le coppe in mano, da allenatori con gli occhi lucidi. Ci avevano fatto credere che fosse anche una frase vera, e lo era, almeno fino a ieri. A spezzare l’incantesimo serviva un sortilegio, una partita-mondo che contenesse al suo interno così tante partite da sovvertire l’ordine costituito che vede nel calcio uno sport che sottrae, che più si fa serio e meno offre. 

Argentina-Francia è stata una partita bellissima, lì dove “bello” non vuol dir nulla, una partita fatta di controllo e caos, di grandezza individuale e collettiva, di errori gratuiti e di gesti tecnici meravigliosi. È stata la partita del fallimento e del successo, del possibile e dell’impossibile. È stata una partita così intensa che guardarla è stata come viaggiare, come correre in un prato a perdifiato, come perdersi nei vicoli di un porto. 

L’Argentina ha dovuto vincerla per tre volte e per tre volte lo ha fatto; prima con la tattica e la tecnica, poi con la tenacia e infine con la mistica, forse il caso, sicuramente il destino. La Francia si è dimostrata quasi immortale, capace di giocare male ma non di perdere, di farsi bastare un minuto appena per spingersi fino ai rigori, ma non è bastato. Paga forse un eccesso di fiducia, una volontà troppo spiccata di rendere ogni partita un simulacro vuoto.

Di questa partita abbiamo parlato anche nel podcast dedicato ai nostri abbonati, Che Partita Hai Visto. Se non lo avete ancora fatto potete abbonarvi cliccando qui.

Quello che resta è la sensazione di aver assistito a un evento storico, una partita di calcio che va oltre quello che possiamo o non possiamo capire. Come raccontarla allora? 

La prima partita, quella tattica

Argentina-Francia ancora prima di iniziare era già piena di storie: tutte le coincidenze col Mondiale dell’86, la possibilità della Francia di ripetersi a quattro anni di distanza, l’ultima danza di Messi, l’assalto di Mbappé al trono. Come se non bastasse, un virus misterioso è arrivato a scombussolare i piani di Deschamps. In tutto questo era facile scordarsi l’aspetto tattico, quello che farebbe vincere e perdere le partite, almeno ogni tanto. Ma è bastato vederli schierati in campo per ricordarci che, nonostante tutto, era pur sempre una partita di calcio. 

L’Argentina è stata una squadra molto flessibile fin qui, ma non era facile immaginare che Scaloni avrebbe avuto la forza di cambiare anche per la finale e che soprattutto l’avrebbe fatto non per preparare un piano difensivo contro Mbappé, ma al contrario per averne uno offensivo che provasse a punire la Francia. L’inserimento di Di Maria, fin qui ectoplasmatico tra infortuni e una forma fisica deficitaria, è stata la chiave di volta della prima partita, l’elemento sobillatore del gioco. Largo a sinistra, in un angolo anche poco conosciuto, Di Maria ha giocato una partita tecnicamente squisita, con la sua faccia antica e quel fisico smagrito sembrava l’erede di qualche ala degli anni ‘30 catapultata a Doha per scherzare Koundé e Dembélé. 

Grazie a questa mossa l’Argentina ha avuto un controllo quasi surreale della partita nel primo tempo. I giocatori di Scaloni ricamavano, trovavano soluzioni tecniche raffinate, movimenti di squadra da videogioco. Davanti a questo trionfo del corale, la Francia era quasi spettrale. C’era ma non c’era. Il secondo gol è la sublimazione di questa superiorità, forse non il più grande mai segnato in una finale mondiale (andatevi a guardare quello di Pelè con la Svezia o un paio di quelli del Brasile contro l’Italia nel 1970), ma sicuramente quello che più ha fatto sembrare gli avversari delle sagome di quelle che si usano negli allenamenti.

Un’azione di pura geometria euclidea: parte tutto da Molina che di prima serve Mac Allister, che di prima verticalizza per Messi, che dopo il controllo allarga verso Julian Alvarez, che di prima serve la corsa di Mac Allister, che di prima appoggia a Di Maria, che di prima batte Lloris. Cinque tocchi, solo Messi a concedersi il lusso del controllo, ma con un secondo tocco che è, per tempi e modi, un primo tocco. 

Come ribaltare questo dominio? Nell’epoca dei cinque cambi Deschamps ci ha provato facendone due al 40’, così mortificato dalla sua squadra da non aspettare neanche l’intervallo, tornare nella pancia dello stadio per provare a ragionare. Sono stati cambi tattici? Punitivi per Giroud e Dembélé? Cambi giusti o cambi sbagliati? Fa tutto parte del pacchetto, non essere sicuri di chi può aver fatto cosa in questa partita. 

Lì per lì, Thuram e Kolo Muani sembravano altri due invitati a una festa che non era la loro. Per quasi ottanta minuti l’Argentina ha reso la finale una cosa sua, bella di una bellezza un po’ didascalica: la squadra teoricamente meno forte che impone il proprio gioco, grazie al calciatore più tecnico di sempre e a una sfilza di gregari che accanto a lui sembrano correre come su una nuvola, giocare come in un bel sogno.  

Poi, senza che ce ne accorgessimo, tutto è cambiato. 

La seconda partita, quella di Messi e Mbappè

Forse qualcosa si poteva vedere nelle pieghe, quando l’Argentina ha iniziato a sbagliare qualche controllo, quando qualche mano si è posata sui fianchi. Messi era stanco, Di Maria tornato in panchina, la Francia aveva inserito – come terzo e quarto cambio – Camavinga e Coman, due che giocano nel Real Madrid e nel Bayern Monaco. Ma forse non è stato neanche quello, forse semplicemente doveva andare così. Come spiegare altrimenti l’impiccio di Otamendi? Una vita passata a spazzare palloni, anticipare attaccanti, che su una palla facile si distrae, la lascia rimbalzare una volta di troppo, fa entrare Kolo Muani nel suo spazio vitale, fregare come un bambino con le caramelle. 

Se Otamendi avesse spazzato in tribuna in questo preciso istante? 

Un gol che sono due, perché dopo appena novanta secondi, che su novanta minuti non sono niente, la Francia fa l’unica azione della sua partita e pareggia. Coman frega palla a Messi, Rabiot la alza, Mbappè fa una sponda di testa, Thuram gliela ridà alle spalle della difesa e Mbappé ci ricorda che sì, Messi potrà anche essere “il calcio”, ma lui aspira a quel livello e aspirare a quel livello vuol dire anche sparire per un sacco di tempo per poi prendersi la scena.

Cosa abbiamo pensato dopo questo gol? Che la Francia avrebbe vinto. È il pensiero normale di chi ha visto tante partite, di chi è sicuro che il calcio abbia dei suoi pattern da seguire. Ma, dopo il pareggio della Francia, tutto quello che pensavate di sapere sul calcio è andato a farsi benedire. 

Cosa pensare altrimenti di una partita che chiude i suoi tempi regolamentari con Rabiot che ha sul piede il gol del 3-2? E che, un paio di minuti dopo, in un recupero che non sembrava finire mai, lo stesso pallone lo mette sul piede di Messi? 

Due occasioni arrivate tra il 93′ e il 96′, due momenti che potevano cambiare ancora questa partita.

Storicamente i supplementari sono un momento morto delle partite, soprattutto in un Mondiale. Le squadre sono stanche, hanno paura di sbilanciarsi, vogliono far succedere meno cose possibili. Ieri è successo l’opposto. L’Argentina si è scordata della paura di perdere, è tornata a cibarsi della voglia di vincere, della voglia di vincere di Messi che, pure stanco, sembrava emanare un’energia diversa. Nei supplementari l’abbiamo visto cucire il gioco, pressare, tornare indietro a recuperare palloni, l’abbiamo visto non disperarsi quando Lautaro Martinez si è messo a sbagliare gol in serie.  

Nella finale del 2014 lui e l’Argentina si erano sciolti sotto il peso delle occasioni sbagliate, ma ieri non è successo, è stata questa la differenza tra questa squadra di Messi e le altre. Ha continuato a provare, fino a riuscire. Se il primo gol è stato grandezza corale, il terzo è stato destrezza: un lancio di mezzo esterno di Montiel, un controllo di controbalzo di Lautaro a fare spazio a Messi, l’appoggio immediato per Enzo Fernandez, il pallone che torna a Lautaro. Con tre tocchi si sono aperti la strada, ma quello più importante è stato il quarto: Messi che col destro va a scrivere un finale che era troppo anche solo immaginare.

Una cosa così bella, che – hanno pensato anche i suoi compagni – sarebbe dovuta finire così. La Francia sembrava di nuovo battuta, di nuovo controllata. Se l’Argentina avesse continuato a spingere, provato a far segnare finalmente Lautaro, invece di tenere il pallone alla bandierina quando mancavano otto minuti alla fine, sarebbe arrivata l’ennesima svolta della partita, la Francia avrebbe trovato la forza di pareggiare? Ancora una volta tante domande e nessuna risposta. 

La terza partita, quella del caos 

Mentre Messi si prendeva la gloria, Mbappé sembrava l’unico non battuto della Francia. Nella sua versione più cristianoronaldesca ci ha mostrato che ci sono molti modi per caricarsi una squadra sulle spalle. C’è quello carismatico, quello ubiquo, ma anche uno più subdolo, fatto di puro accentramento. Mbappé è stato la Francia fino all’ultimo: suo il tiro sul braccio di Montiel, suo il rigore che ha ricacciato il lieto fine più lontano, sua la voglia di riscrivere la storia. Un minuto dopo il terzo gol è lui a mettere un pallone tra la testa di Kolo Muani e l’incrocio, sfiorare il quarto gol. Era il 120’ e pensavamo fosse tutto finito, invece era appena iniziato.  

Prima Lautaro Martinez ha avuto la terza occasione della sua partita (ma era in fuorigioco), poi è toccato a Kolo Muani avere la sua. È bastato un lancio a caso, un liscio di Otamendi (ancora lui) per creare un’altra storia di questa partita. Perché l’intervento di Emiliano Martinez è di quello che spinge gli uomini a fare le statue, un salvataggio così incredibile per tempismo e palcoscenico che in Argentina lo tramanderanno per generazioni. Finita qui? No, perché sul ribaltamento di fronte è ancora Martinez ad avere l’occasione, sulla testa, e sprecarla colpendo malissimo. Rigori? Ancora no, un attimo.

Perché al 124’ – è mai esistito un 124’ prima di ieri? – Mbappè controlla un pallone sulla linea di fondo, fa ballare il tango a Romero e Paredes, finta il tiro per saltare anche Enzo Fernandez e quasi ci riesce. Il centrocampista argentino però riesce a sporcargliela con la punta della punta e poi, dal nulla, arriva Dybala a salvare tutto spazzando come forse non aveva mai fatto in vita sua. Incredibile no? Che sarebbe successo se Enzo Fernandez avesse portato un numero in meno di scarpe o se Dybala non fosse entrato per calciare un rigore? Non lo sapremo mai, ed è giusto così.

Quando l’arbitro ha fischiato la fine è sembrata una punizione e una liberazione al tempo stesso. Da una parte era ingiusto che fossero i rigori a decidere questa cosa, dall’altra i giocatori erano consumati, fisicamente e nell’anima. E i rigori hanno deciso, ma hanno anche raccontato. Raccontato la glacialità di Mbappé, un tratto inumano che ieri è uscito fuori con prepotenza e che lo disegna come perfetto cattivo dei prossimi anni a venire; la tranquillità di Messi c he davanti al momento più incredibilmente difficile della sua vita – cosa pensare di lui che si presenta sul dischetto per indirizzare la coppa del mondo dall’una o dall’altra parte – non solo non ha sbagliato, ma è apparso tranquillo come i santi nei dipinti.  

Poi è toccato ai comprimari:  il “Dibu” Martinez che para il rigore di Coman, che spinge fuori quello di Tchouaméni con l’arroganza; Dybala entrato solo per calciare che, forse trema, ma non sbaglia. Fino alla fine più incredibile di tutti, se ci pensate: l’ultimo atto del più grande evento sportivo del mondo è un calcio di rigore di Montiel, ma non è la prima e non sarà l’ultima che un terzino di scarso successo decide una finale del Mondiale.

Insomma che ci rimane alla fine di questa partita? Abbiamo avuto tanto, forse troppo: è stata la finale di  Messi che emula Maradona, del singolo che eleva il gruppo, ma anche il suo contrario. Una finale riempita dalle corse di Mac Allister, dalla lotta di De Paul, decisa dal rigore di Montiel e dalle parate di Martinez. È la finale di Mbappè che non ci sta, che mette il suo talento al servizio della storia, che mentre celebriamo il passato ci ricorda che, sempre, c’è un futuro. Ma è anche la partita delle scelte di Scaloni, dei cambi di Deschamps, delle occasioni mancate e dei rigori concessi. La finale che celebra i Mondiali in inverno, il Qatar come nuova potenza che può rivestire Messi coi suoi simboli; la finale del discorso di Macron e dei festeggiamenti sconci degli argentini. 

Ma soprattutto Argentina-Francia è stata una partita che ha soddisfatto la nostra parte più inconscia, che ha riempito un nostro vuoto. C’è una domanda che ci fanno spesso, che ci facciamo spesso:  “p erché ci piace il calcio?”. È una domanda in cui certi giorni è difficile rispondere, quei pomeriggi in cui il calcio può trasformarsi in vuoto esistenziale, offrire poco o niente a chi lo guarda. Ma è una domanda a cui abbiamo sempre risposto con entusiasmo, parlato di cultura, di tifo, detto “voi non potete capire”. E se è vero che da domani in molti torneranno a non capire, almeno per ieri grazie ad Argentina e Francia è stato chiarissimo perché il calcio è la cosa più incredibile di tutte. 

Marco D'Ottavi è nato a Roma, fondato Bookskywalker e lavorato qui e là.

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