Ridley Scott: geniale maestro della ripresa o infaticabile macchina da soldi? Forse entrambe le cose... - Taxidrivers.it

2023-01-05 16:02:27 By : Ms. Cherry Lee

Ridley Scott ha compiuto 84 anni lo scorso novembre e, dal carnet di impegni registrati negli articoli dei siti  cinematografici a lui dedicati, si rivela, ora più che mai, come una fucina di progetti, sulla carta anche assai impegnativi, tutti in procinto di partire o di essere portati a termine.

Come Steven Spielberg, il tenace regista è solito affrontare i suoi spesso sontuosi progetti anche contemporaneamente, spaziando da un film storico a uno di fantascienza, o a uno di costume che ritrae la scintillante falsità e il vuoto morale degli anni ’80, gli anni “da bere”.

Il suo prossimo progetto, ormai in dirittura di arrivo, sarà dedicato alla figura di Napoleone , e già si magnifica per la presunta prestazione che il grande e versatile attore Joaquin Phoenix potrà rendere di un personaggio così impegnativo e anche rischioso.

Ma è pronto anche lo script, decisamente più rischioso e, sulla carta, sin avventato, che riguarda un secondo capitolo di quel Gladiatore che nel 2000 ebbe il merito di dare un colpo d’ala non indifferente alla carriera di Scott, arenata tra un biopic su Cristoforo Colombo dalla lavorazione assai travagliata, e film di cadetti marinai come Albatross, che scade in una retorica piuttosto insopportabile. Anche se poi, nonostante l’insuccesso riscontrato, non gli si può volere davvero male. Un successo stratosferico Il Gladiatore, che ha contribuito più di ogni altro a far rinascere la moda del genere “peplum”.

Non meno rischioso e azzardato pare il progetto che riporterebbe Scott in zona “aliena” dopo i suoi intriganti, ma non sempre completamente convincenti, Prometheus (2012) e Alien: Covenant (2017).

Ma i progetti che vedono impegnato in modo febbrile il tenace ottantaquattrenne cineasta britannico non sono finiti. Da anni si parla del coinvolgimento di Scott nella trasposizione del comic di Greg Rucka, Queen & Country , incentrato su una dinamica agente dell’intelligence britannico, che potrebbe costituire il definitivo contraltare femminile di un Bond che non osa ancora apparire in vesti femminili.

Nel contempo, potrebbe risultare utile ripercorrere le tappe cronologiche che hanno caratterizzato una carriera concitata, iniziata alla non più tenera età di quarant’anni nel 1977, dopo un lungo periodo trascorso a dedicarsi con successo, e a farsi tecnicamente le ossa, nel comparto pubblicitario e dei videoclip. 

Scott è senza dubbio un talento dell’immagine e della ripresa, un perfezionista della rappresentazione. Ma è pure, e lo ha dimostrato ampiamente in svariate occasioni, un uomo per nulla indifferente al business e al ritorno economico, al punto da farsi portavoce di iniziative emblematiche. Come quella sfociata nel 2017 nello scaldalo “Kevin Spacey”, che indusse il regista a cacciare dal set il celebre attore, impegnato come co-protagonista del film Tutti i soldi del mondo, sostituito con più anziano Christopher Plummer, e per questo costretto a rigirare gran parte delle scene madri del film, piuttosto che rischiare che lo scandalo sessuale, in cui è stato implicato Spacey, rischiasse di tradursi in un boicottaggio del suo film, girato con un budget di tutto rispetto.

Le polemiche, in quella occasione, non tardarono a farsi sentire, costituendo per il film una pubblicità gratuita e spontanea che non fece male alle sorti economiche del prodotto.

Polemiche a parte, Ridley Scott è senz’altro un regista che ha esordito col botto: un film in costume del tenore e della maestria visiva de I duellanti, e che alla prova del nove del secondo film si ripropone, solo due anni dopo, con il cult fantascientifico/horror/splatter Alien, e poi , nel 1982, con la fantascienza più matura, nostalgica e pure romantica di quello che diventerà, dopo 2001 Odissea nello spazio di Kubrick (e Stalker tra i cinefili più esigenti), il più importante film di fantascienza della storia del cinema, ovvero Blade Runner, non può certo essere un cineasta come tanti. 

Ma ricominci amo davvero dall’inizio, ripercorrendo tutta la carriera cinematografica di Ridley Scott, dal corto intimista Boy and Bicycle in cui chi racconta è il pensiero della mente, allo sfarzoso House of Gucci in cui a parlare troviamo il lusso sfrenato e il kitsch più ostentato. In mezzo ci sta il cinema in tutte le sue sfaccettature, e la carriera di un autore magari un po’ discontinuo, ma coraggioso, tenace e instancabile. Uno che, meglio di molti altri, sa muovere la macchina da presa, cogliere al meglio il senso di un’azione, manovrare e dirigere scene di massa, senza peraltro omettere  di percepire l’intimità di una singola espressione minimale nella quale si racchiude la fase cruciale di una sua storia.

Sono trascorsi quasi sessant’anni dall’esordio dietro la macchina da presa, avvenuto nel 1965 con questo schietto, accattivante e nostalgico Boy and Bicycle.

Ambientato nella natia cittadina inglese di Hartlepool, nel nord-est dell’Inghilterra, questo cortometraggio di poco meno di mezz’ora racconta la giornata del compimento dei primi sedici anni di un ragazzo un po’ pigro, che, al raggiungimento di quella fatidica età, un tempo indicativa del raggiungimento della maggiore età, si sveglia nella sua camera a seguito del trambusto casalingo degli altri componenti che si preparano ad affrontare una nuova giornata.

Dopo la levataccia tutt’altro che scontata, una colazione un po’ frettolosa, il giovane decide di marinare la scuola. É Tony Scott , compianto fratello minore di Ridley, all’epoca diciannovenne, pure lui noto regista, soprattutto di blockbuster un po’ grossolani come Top Gun, Revenge, Giorni di tuono e Beverly Hills Cop II, ma pure di action solidi e dignitosi quali L’ultimo boyscout, Nemico pubblico e Spy game, oltre alla chicca pulp Una vita al massimo.

Girovaga senza meta con la sua bicicletta, soffermandosi sulle vetrine di dolciumi che espongono delizie irresistibili, e poi si dirige verso il mare. La marea si ritira, e il giovane scorge un vecchio capanno di pescatori, presso cui si dirige curioso.

Si troverà improvvisamente dinanzi il viso coriaceo, rugoso e spettrale di un vecchio marinaio, che lo indurrà alla fuga dopo un brivido da spavento che coinvolge pure lo spettatore.

Finanziato all’epoca dal British Film Institute, che ora lo conserva come un prezioso baluardo, Boy and bicycle è uno straordinario piccolo film d’esordio che spazia dalla poetica introspettiva legata all’età giovanile, alla dinamica dell’effetto sorpresa e suspense, alla descrizione d’ambiente che si traduce in immagini ad effetto: quasi fosse, come in effetti è, un trattato teorico e didattico che trae spunto da condizioni di vita e personali del tutto reali, in grado di mettere in mezzo anche la famiglia del regista.

Riprese ardite che denotano una vocazione marcata per la ripresa ad effetto e la capacità di cogliere il senso dell’azione e del movimento.

Tutte doti che permetteranno a Scott, dopo un decennio dedicato a “farsi le ossa” nel marketing pubblicitario, di esordire già un po’ maturo ma col botto, con le sue prime tre opere indimenticabili e tutte cult assoluti (I duellanti, Alien, Blade Runner).

Nell’anno 1800, durante l’espansione imperialistica di Napoleone, il giovane ufficiale Armand D’Hubert ( Keith Carradine ) si offre per andare a recapitare a un suo pari grado, il focoso Gabriel Feraud (un sanguigno Harvey Keitel ) un avviso di convocazione, dopo che quest’ultimo ha impunemente sfidato a duello un parente prossimo del sindaco di Strasburgo, ferendolo gravemente.

Anziché considerarlo un neutro ambasciatore, il Feraud considera il suo collega offensivo nel tipo di approccio, al punto da ritenersi leso nell’onore, e per questo decide di sfidare pure lui a duello.

Sarà l’inizio di una sfida senza fine, che non arriverà mai veramente a concludersi, e che si perpetrerà per oltre quindici anni, segnando, tra l’altro, il passaggio dall’arma bianca alla polvere da sparo, che tuttavia non riuscirà a trovare un vincitore e un vinto in via definitiva.

Intanto i due faranno carriera; D’Hubert riuscirà anche a sposarsi felicemente, mentre il suo sfidante resterà sempre solo e rancoroso, animato solo da quella sfida senza fine che li vedrà continuamente incrociare ognuno la strada dell’altro, persino nelle ghiacciate lande della disastrosa campagna napoleonica in Russia del 1811.

“Prima che la guerra cancelli tutto, ti chiedo: perché vi siete battuti?

-lo chiedi a nome della cittadinanza? Diciamo….per una schermaglia cavalleresca.

Ma sai…in fondo non lo so bene neppure io “

Il duello perenne, che ferirà entrambi i contendenti lasciando segni indelebili sui loro corpi più di quelli del campo di battaglia, non sarà la soluzione definitiva di un duello che si risolverà del tutto solo con una sconfitta morale. E l’onore, l’orgoglio, si rivelano già da subito la vera causa dello scontro, nonché, a livello universale, l’origine del male e di tutte le guerre che hanno travolto il corso della storia umana sul pianeta.

Dopo una lunga esperienza in campo pubblicitario assieme ad altri nomi che diventeranno famosi, come Ala Parker, Hugh Hudson, ed il fratello Tony, Ridley Scott esordisce quarantenne; dunque, relativamente tardi come regista di un film a soggetto.

Ma l’esperienza maturata sul set degli spot pubblicitari anche assai famosi di cui fu autore, gli servì assai come scuola e I duellanti sembra, a tutti gli effetti, il film riuscito e perfetto che sta al culmine dell’esperienza artistica di un regista.

La maniacalità delle inquadrature, gli sfondi quasi pittorici, sono parte integrante e sostanza di un film la cui storia è adattata piuttosto fedelmente da un racconto del 1908 del grande scrittore Joseph Conrad  (Lord Jim, Cuore di tenebra, Nostromo, per citare alcuni tra i suoi più noti romanzi).

Ma Scott ci mette del suo e filma con una maestria che rende I duellanti una delle più sorprendenti opere prime di sempre, e che lancerà il suo autore nell’Olimpo degli autori americani da fine anni ’70 ai nostri giorni.

Nel cast, oltre ai già citati, bravissimi protagonisti, riconosciamo altri attori importanti della cinematografia e del teatro inglese, come Albert Finney  (Joseph Fouché),  Edward Fox ,  Tom Conti , mentre, nel ruolo della giovane moglie del protagonista, troviamo la solare  Cristina Raines .

“Mi avete tenuto alla vostra mercé per quindici anni. Non farò più ciò che voi pretendete da me. Per il codice cavalleresco la vostra vita da questo momento mi appartiene. Ne convenite vero? E io semplicemente vi dichiaro morto. In tutti i rapporti con me mi farete il favore di comportarvi come foste defunto.

Ho subito troppo a lungo il vostro concetto dell’onore. Ora voi subirete il mio”.

La nave spaziale commerciale Nostromo (nome che non a caso trae spunto da Conrad, come il suo film d’esordio di due anni prima), nel bel mezzo del suo viaggio di rientro, risveglia bruscamente il suo equipaggio, che impiega poco tempo per accorgersi che la Terra è ancora lontana. Il capitano Dallas (Tom Skerritt) comprende che quel risveglio è stato causato dalla ricezione di segnali di vita presso un pianeta piuttosto vicino alla rotta del Nostromo.

Nonostante si tratti di una navicella cargo, la compagnia decide di utilizzare il suo equipaggio per recarsi sul pianeta e documentare l’origine di quel segnale.

Lì la squadra scopre, in una struttura misteriosa che pare una vecchissima astronave, alcuni baccelli che pare celino vite in attesa di potersi manifestare. Kane (John Hurt ), uno degli astronauti, viene attaccato da una forma di vita simile a un polpo che gli si avvinghia al volto lasciandolo in coma.

“Un momento…qualcosa si muove….sembra avere vita…vita organica!…”

I soccorritori intendono portarlo sull’astronave per esaminarlo, ma il vice comandante, tenente Ripley (una  Sigourney Weaver  poco meno che agli esordi, nonché da quel momento star conclamata), cerca di opporsi invano per il mancato rispetto delle più elementari regole sulle pandemie e altre possibili contaminazioni. Ash ( Ian Holm ), il medico di bordo, ha la meglio, e il corpo viene fatto entrare nella navicella. Sarà l’inizio della fine, perché quel parassita dimostrerà di riuscire a vivere solo dopo aver utilizzato forme di vita estranee, e ora l’alieno, cresciuto a vista d’occhio, si annida tra i corridoi e i mille anfratti della navicella, difendendosi dal pericolo rappresentato dall’equipaggio ( Yaphet Kotto, Veronica Cartwright, Harry Dean Stanton  e un gran gatto soriano rosso di nome  Jonesy ), probabilmente affamato, certamente in grado di fare strage di ogni altro occupante di quello spazio claustrofobico. Il resto è certo cosa nota.

Alla sua seconda avventura cinematografica, Ridley Scott dà vita, coadiuvato in sceneggiatura dal valido e noto sceneggiatore sci-fi  Dan O’Bannon , a un grandissimo cult, nonché al capitolo d’esordio di una delle più importanti e fondamentali saghe di fantascienza della storia del cinema.

Tensione alle stelle, che saprà riproporre solo John Carpenter pochi anni dopo con La cosa. Effetti speciali all’epoca da urlo a cura del nostro abilissimo artigiano Carlo Rambaldi, futuro papà di ET, all’interno di un film che ha segnato un’epoca ed è ancora una pietra miliare della fantascienza.

Sette anni dopo un certo James Cameron sceglierà di tornare in argomento e con Aliens riuscirà a fare probabilmente ancora di meglio. Ma il primo capitolo, per forza di cose, rimane un oggetto di culto per definizione, oltre che un film di fantascienza ancora assai galvanizzante.

Ripley, sola col gatto rosso, alta e flessuosa in mutandine e canottiera mentre si predispone per il viaggio di ritorno dopo essersi illusa di aver scampato finalmente il pericolo, ma si ritrova ad affrontare l’alieno astutissimo che l’ha seguita, è un pezzo indimenticabile della storia del cinema.

E un nuovo, rivoluzionario tipo di eroina, di femminilità che non rinuncia a un tocco di mascolinità, senza tuttavia rinnegare la propria essenza.

“Rapporto finale del veicolo commerciale Nostromo: gli altri membri dell’equipaggio, Brett, Kane, Parker, Lambert e il comandante Dallas sono morti. Carico nave: semidistrutto. Dovrei raggiungere la frontiera entro sei settimane. Se sono fortunata la sorveglianza mi porterà in salvo. Parla Ripley, unica superstite del Nostromo. Passo e chiudo.

Accolto in modo assai tiepido alla sua prima uscita, ma divenuto, anche grazie alle sue molteplici versioni tra Director’s cut e Final cut più o meno ufficiali, un film culto già a partire dai primi anni ’90, Blade runner è ambientato in un futuro prossimo che rappresenta ormai un nostro recente passato. Nel 2019 infatti, in una Los Angeles immersa in una pioggia perenne, ove nelle vie celesti contrassegnate da molteplici grattacieli illuminati da enormi pannelli pubblicitari, viaggiano astronavi e veicoli volanti in grado di creare un traffico superficiale più caotico che quello nelle normali arterie stradali, un compassato agente della squadra speciale dei “blade runner”, Rick Deckard, va alla ricerca di un gruppo di replicanti ribelli.  Fuggiti dalla colonia in cui erano adibiti a lavori pesanti e ripetitivi, i replicanti intendono confondersi tra la folla cittadina, con l’ambizione di aspirare pure loro ad una vita “imperfetta” e soggetta a scadenza, propria degli esseri umani.

A costoro le macchine, tecnicamente perfette e immortali, invidiano la capacità di provare sentimenti, quegli stessi che paiono mancare all’integerrimo agente Rick, risoluto e senza pietà nel dare la caccia e “terminare” quei furbi androidi, decisi a raggiungere l’imperfezione, in nome di una genuinità di vivere mai provata fino a quel momento.

La caccia del detective si concentra, in particolare, nei confronti del carismatico leader dei fuggiaschi, ovvero l’ossigenato Roy Batty, che darà prova di astuzia e malizia non dissimili dai sentimenti umani a cui il gruppo di ribelli anela. Uscirà di scena pronunciando una delle frasi cardine della storia del cinema, e forse anche la più conosciuta, forse anche più famosa dello stesso film:

“Io ne ho viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. É tempo di morire”.

Pathos, commozione, autentica emozione hanno reso immortale questa scena, e Blade runner un film di culto, non solo tra i confini della fantascienza, in grado di rendere palese l’anelito di vita e la frustrazione che rende la macchina perfetta e immortale, come un ingranaggio senza sentimento, che tuttavia anela alla sua mancanza, desiderandola più di ogni altra cosa.

Deckard, è innamorato della bella Rachael al punto da convincersi ad andare oltre la missione di sterminatore di androidi che lo vedeva esponente irriducibile e senza sentimento, per fuggire con lei. Uno dei momenti più romantici della storia del cinema. Il dubbio finale circa l’indizio che indicherebbe proprio essere egli stesso un replicante, si trasforma nell’enigma che galvanizza e rende la storia, liberamente tratta dal romanzo di di Philip K. Dick Il cacciatore di androidi, sceneggiato da Hampton Fancher e David Webb Peoples, un capolavoro di finezza narrativa ed epicentro di emozioni a prova di roccia.

“Peccato però che lei non vivrà…sempre che questo sia vivere….”

Harrison Ford, Rudger Hauer, Sean Young, Daryl Hannah, Joanna Cassidy, Brion James, Edward James Olmos , conferiscono ai loro personaggi una luce indelebile, che restituisce agli interpreti il ruolo cardine delle rispettive, spesso notevoli carriere.

Ridley Scott , qui al suo terzo film, diventa un autore di culto, un cineasta a cui dedicare seminari, trattati, pubblicazioni.

E Blade runner un film che, passato inosservato alla sua uscita, si appresta ogni decennio a tornare in sala, spesso con nuove versioni, con o senza unicorni (pare ne esistano addirittura sette!), con o senza voce fuori campo, con nuovi finali, e ancora con la leggenda magnifica delle scene iniziali di Shining generosamente fornite da Kubrick a Scott, e dallo stesso utilizzate per il suo finale all’insegna della speranza.

Tutto vero? Tutto falso? La solita lungimirante verità che sta in mezzo? Poco importa: Blade runner resta un cult che, a differenza della maggior parte dei film, fa piacere riguardare senza mai stancarsi, ogni volta riuscendo a percepire nuove sensazioni…andate perdute irrimediabilmente le volte precedenti….” come lacrime nella pioggia “.

In un’epoca senza tempo, il malvagio Tenebra, che vive coerentemente in una valle oscura, odiando la luce e la positività che si associa a tale fenomeno, desidera impadronirsi anche della superficie illuminata e pullulante di vita e natura incontaminata.

Per fare ciò, deve uccidere gli ultimi due esemplari di unicorni, ovvero due bellissimi destrieri bianchi con un corno sulla fronte, a cui si deve il beneficio della luce.  Pertanto ingaggia una banda di mostri capitanati dal perfido Blix per compiere tale laida missione.

In superficie, tra boschi ameni e creature pacifiche, l’amore tra i giovani Jack e Lili si celebra come coronamento di una perfetta armonia di vita. Ma il giorno in cui Jack decide di mostrare alla sua bella ragazza il nascondiglio degli unicorni, e costei ingenuamente si fa scoprire dall’orrido Blix, ecco che il malvagio uccide uno dei due destrieri magici, facendo sprofondare la superficie terrestre in una terra perennemente avvolta da una nebbia grigiastra che fa calare ovunque un rigido e cupo inverno.

In più Blix rapisce Lili, e la porta al cospetto del suo sovrano Tenebra, che tuttavia, sconvolto dalla bellezza della giovane, se ne invaghisce, desiderando sposarla e, ancor prima, corromperla alla sua più idonea opportunità.

Per fortuna, nell’impresa di Jack di portare in salvo la sua bella, si forma una curiosa squadra di creaturine buffe e magiche, tra cui un elfo, una fata e alcuni nani, che risulteranno fondamentali per la riuscita di un’impresa dai connotati assai ardui e pericolosi.

Ma non sarà così semplice corrompere al male la bella Lili, che, anziché uccidere l’unicorno superstite, lo libererà, facendo tornare la luce e affievolendo notevolmente il potere di Tenebra, che verrà ucciso dal coraggioso e motivato Jack, in un finale alla “vissero felici e contenti”.

Legend, opera quarta di  Ridley Scott  dopo tre film eccezionali uno di seguito all’altro (I duellanti, Alien e Blade Runner) è un fantasy dalla gestazione piuttosto tribolata, e dalle ambizioni innegabili, che tuttavia non si traducono, a livello di storia e di narrazione, in un film galvanizzante o di semplice approccio.

Una volta acclimatatosi nelle splendide scenografie che illuminano la vicenda a inizio film, lo spettatore si avvia a rendersi vittima di una storiella piuttosto banale, che mai e poi mai risulta in grado di farsi seguire con vero interesse.

La presenza di creature fantastiche tipo nani ed elfi anticipa l’avventura, di ben altra qualità tecnico narrativa, de Il Signore degli Anelli, per il quale occorrerà aspettare quasi un ventennio.

Ma in Legend è proprio la struttura narrativa a difettare di interesse, non avendo come base un romanzo della potenza di quello di Tolkien.

Dopo lo scarso successo riscontrato durante il primo lancio in Europa, la Universal meditò un rimontaggio dell’opera destinata al pubblico Usa, con una versione più snella di cinque minuti e alcune scene sostituite. Ma anche in America il film fu un clamoroso flop. Di versioni ne esiste anche una terza, in stile director’s cut, che include venti minuti in più di scene inizialmente tagliate.

Tuttavia nemmeno questa riesce a rendere più coinvolgente un film apprezzabile solo dal punto di vista formale ed estetico.

Tra i protagonisti, citiamo un  Tom Cruise  in odore di futuro divismo, la bella  Mia Sara  e il carismatico  Tim Curry , cattivone per eccellenza.

Una bella e ricca donna di Manhattan ( Mimi Rogers ) è l’unica testimone oculare di un efferato omicidio occorso durante un party in una location esclusiva.

Per la polizia diviene importante proteggere la testimone dalla minaccia di un assassino di cui si conosce già praticamente il nome, ovvero l’ex socio e da poco tempo acerrimo rivale del defunto, che si è dato alla macchia dopo l’assassinio. Pertanto, l’esperto detective Mike Keegan ( Tom Berenger ) viene incaricato di proteggere la donna, vivendo praticamente a casa sua.

In particolare il poliziotto deve proteggerla in orari notturni, e l’attrazione tra i due, entrambi alle prese con unioni sentimentali piuttosto alla deriva,  fa scattare la scintilla che li porta a consumare una relazione intima segreta.

Ma la moglie del poliziotto ( Lorraine Bracco ), pure lei nell’arma, intuisce presto che tra suo marito e la bella donna può esserci qualcosa e la circostanza le fornisce il pretesto per cacciare di casa il consorte.

Il killer non mancherà di ripresentarsi, nonostante la protezione attorno alla testimone, riuscendo a prenderla in ostaggio insieme al figlio, ma un intervento a sorpresa riuscirà a debellare la minaccia del folle carnefice.

Sarà anche l’occasione, per ognuno dei due nuovi amanti, per tornare ognuno al proprio ruolo, facendo in modo che la razionalità e la coscienza prevalgano sull’istintività ed il desiderio.

Dopo il flop inaspettato del progetto costoso di Legend,  Ridley Scott  torna in regia con un film su commissione, produttivamente e finanziariamente di poche pretese rispetto ai suoi sontuosi film precedenti.

Chi protegge il testimone, titolo italiano un po’ pedante che sostituisce lo splendido originale Someone to watch over me, che a sua volta prende spunto da una bella canzone di George e Ira Gershwin in una versione riadattata da Sting, è un thriller efficace per quanto stilisticamente un po’ laccato, scritto dal bravo sceneggiatore Howard Franklin (quello di Occhio indiscreto e dello script de Il nome della rosa).

Un bel terzetto di attori affascinanti come Tom Berenger, Mimi Rogers e Lorraine Bracco sfoggia abiti, pettinature e accessori tipici di quell’esuberante fine decennio, con vestiti femminili dalle spalline esagerate e  scintillii che testimoniano, ora più che mai, la fine di un’epoca di esuberanza e opulenza, lontano ricordo di un’epoca ormai sepolta.

L’incastro funziona, ben congegnato, se si tiene conto che il colpevole si smaschera sin troppo facilmente già all’inizio.

Scott dirige con l’abituale padronanza di stile, e il film, dalle atmosfere cupe e galvanizzanti, che di fatto resta un capitolo minore della sua sontuosa carriera, risulta oggi valido soprattutto come testimone di costume di un’epoca che sembra già uno scintillante passato remoto.

Nick Conklin  (Michael Douglas ) è uno degli ex grandi poliziotti di New York, da tempo messo un po’ in disparte per sospetta concussione, che spiegherebbe il suo vivere al di sopra delle possibilità, e il far fronte a un divorzio che altrimenti lo avrebbe dissanguato.

Mentre si trova col suo fidato collaboratore Charlie Vincent ( Andy Garcia ) a pranzare in un locale, ha luogo una sanguinosa faida tra un gruppo di gangster giapponesi e un clan italiano, con un morto sgozzato.

I due poliziotti si mettono all’inseguimento dell’assassino, fino a catturarlo.

Si tratta di un tenebroso Yakuza di nome Sato (l’attore  Yusaku Matsuda , già malato durante le riprese, e deceduto prima della presentazione ufficiale americana del film), che i due poliziotti si ritroveranno costretti a estradare in Giappone, scortandolo sino ad Osaka.

Peccato che la banda del criminale si organizzi in modo da assumere le false vesti di polizia cittadina in procinto di prendere in consegna il detenuto, che dunque torna libero.

Fermati dalla vera polizia locale, i due verranno interrogati dal paziente e mite commissario Matsumoto (la star nipponica Ken Takakura ), col quale il nostro Nick finirà, pur controvoglia, per instaurare un efficace rapporto di collaborazione, che condurrà entrambi verso un’indagine serratissima e concitata, fino alla cattura dell’abominevole Sato.

Ingaggiato da Michael Douglas, nel cast anche tra i produttori esecutivi del film,  Ridley Scott  infonde al robusto thriller d’azione quel tocco hi-teck che appare molto pertinente nel contesto futuristico dell’affascinante città di Osaka, che ospita gran parte dell’ambientazione della pellicola.

Di contro, la produzione è costretta ad affrontare vicissitudini burocratiche piuttosto complicate che tardano la conclusione del film, e lo stesso Scott, allontanato dal paese per mancanza di visti in regola, si risolverà a girare alcune scene di esterni in località della campagna americana.

Nonostante ciò, il film, candidato agli Oscar in due categorie tecniche (Miglior sonoro e Miglior montaggio sonoro), riscosse un buon successo di pubblico, sia negli Usa, sia nel resto del mondo, irrobustendo la posizione di Scott, decisamente ridimensionatasi dopo i fasti dei suoi primi splendidi tre film (I duellanti, Alien e Blade Runner), a seguito del sonoro flop del fantasy Legend del 1985.

In fuga per la libertà. Quello che nasce come un piccolo viaggio fuori porta per evadere dalla banale routine quotidiana, trasforma una cameriera quarantenne di nome Louise ( Susan Sarandon ), e la casalinga spilungona trentenne di nome Thelma ( Geena Davis ), in due fuggiasche classificate come pericolose criminali.

L’escalation di quella loro fuga dagli esiti imprevedibili, ha inizio a seguito di una tentata violenza ai danni della bella di quel duo di amiche, ovvero Thelma. Ma è Louise a reagire e a difendere la compagna, sparando ed uccidendo il verme che ha tentato la violenza.

“Tu (Thelma) sei sempre stata matta. É che non sei mai riuscita a tirar fuori la tua pazzia.”

E scappano verso il New Messico, senza pensarci troppo, anzi proprio col pensiero alla squallida realtà che ognuna sta lasciando, affrontando atteggiamenti grevi, discriminatori e truffaldini di tutta una bestialità maschile che le induce a proseguire, anche quando la polizia le sta raggiungendo e le tiene in pugno sull’orlo di un precipizio.

É un capolavoro, Thelma e Louise, scandalosamente premiato con l’Oscar solo per la migliore sceneggiatura (a cura della brillante Callie Khouri ): un film che allarma, che si fa seguire tenendo sulle spine un pubblico che non ha dubbi sulle parti da prendere, quando i dubbi vengono pure al saggio poliziotto che cerca di farle ragionare ( Harvey Keitel ).

Un film che commuove e descrive due personaggi unici nella loro diversità, seguendo ognuno di loro e delineando di ognuna le mille sfaccettature di due personalità opposte, ma pure altamente compatibili.

Scott affronta il viaggio delle due donne nel deserto americano, prodigandosi in riprese che valorizzano lo splendido paesaggio brullo da western che comunica grandiosità: qualcosa che si avvicina all’eterno.

“-Senti Louise… non torniamo indietro!

Lo stesso valore che le due donne, devastate da un mondo che le usa come oggetti, scelgono di abbandonare in un finale commovente e forte che rimarrà per sempre impresso in ognuno degli spettatori coinvolti nella visione di questo grande tassello di cinema.

Con Thelma  Louise, Ridley Scott  ritorna alle vette qualitative della sua trilogia d’esordio tra fine Settanta ed inizio Ottanta, offre alle due star Sarandon e Davis la parte più significativa delle loro tutt’altro che trascurabili carriere, e fa esordire (o quasi) al cinema la futura star Brad Pitt , impegnato qui nel ruolo di un gigolò cowboy ladro e irresistibile che scosse e creò fermento in un gran numero di spettatrici. 10/10

L ‘epopea del grande viaggio che condusse l’indomito marinaio genovese Cristoforo Colombo a intraprendere un viaggio, finanziato dalla regina di Spagna, lungo un tratto di mare ignoto come era in quei tempi l’Oceano Atlantico, che si diceva popolato da mostri. Antistante un abisso in linea con la comune corrente terrapiattista dell’epoca. Alla ricerca di una congiunzione con le Indie scoperte da Marco Polo, che permise al coraggioso navigante di scoprire la attuale terra d’America.

Nel 1992, in occasione del cinquecentenario della scoperta delle Americhe da parte di Colombo, Ridley Scott decide di accettare su commissione uno dei due progetti all’epoca promossi per omaggiare il grande navigatore.

“Le ricchezze non rendono l’uomo libero; lo rendono solo più occupato.”

Entrambi i progetti (il concorrente fu il più commerciale e virato all’action Cristoforo Colombo – La scoperta, per la regia dell’esperto bondiano John Glen, forte di un cast ancor più di richiamo che include, seppur in ruoli minori, Tom Selleck e Marlon Brando), furono funestati da gravose vicissitudini che ne compromisero non poco la qualità. Oltre al fatto che i due film, usciti quasi contemporaneamente, crearono più confusione che antagonismo tra gli spettatori, risultando due sostanziali flop.

Il film di Ridley Scott può vantare la scelta di un interprete fisicamente perfetto come Gerard Depardieu, che tuttavia non appare nel film completamente a suo agio e non si produce certo in una delle sue interpretazioni memorabili. Nel cast, piuttosto sontuoso, citiamo anche Sigourney Weaver , nel ruolo della regina Isabella, che torna a lavorare con il regista che la lanciò e rese diva grazie ad Alien. 6/10

L’ALBATROSS – OLTRE LA TEMPESTA

“A volte non ci si può sottrarre al vento, si possono solo mettere a segno le vele e tirare dritto.”

Ad inizio anni ’60, tredici liceali volonterosi accettano di imbarcarsi in un grande veliero-scuola chiamato Albatross, dove formarsi alla scuola di mare e maturare esperienze per il curriculum che li introdurrà nel mondo del lavoro.

Durante le 6000 miglia di un viaggio che parte dal Golfo del Messico per giungere sino in mezzo all’immenso Oceano Pacifico, dopo aver imparato ad affrontare uno skipper esigente e spigoloso come il carismatico Christopher Sheldon ( Jeff Bridges ), sulla via del ritorno si imbatteranno in una anomala bufera che farà naufragare l’imbarcazione, provocando anche alcune morti (la tempesta White Squall del titolo originale).

Ne seguirà un concitato processo in cui la responsabilità di una preziosa testimonianza da parte dei superstiti, getterà le basi per una maturazione dei ragazzi, accompagnandoli fino all’ingresso dell’età adulta.

Interessante l’ambientazione e parte dello sviluppo, soprattutto per come viene gestita la rappresentazione della terribile tempesta. L’Albatross frana clamorosamente nella più smielata retorica quando affronta il disagio dei giovani sopravvissuti nel decidere su chi addossare le colpe del disastro, raggiungendo picchi di sentimentalismo e buonismo di fatto assai fastidiosi.

Colpa della struttura, più che del regista Ridley Scott, che filma con la solita verve indiscutibile, ma si trova ad affrontare il secondo flop consecutivo della sua carriera, subito dopo l’altrettanto marinaro 1492 – La conquista del paradiso, e il terzo, includendo anche il clamoroso flop di Legend.

Nel cast assai variegato, appaiono anche John Savage e i promettenti (a quei tempi) Ryan Philippe, Balthazar Getty, Jeremy Sisto, che tuttavia , pur ancor pienamente in attività, non risultano mai aver sfondato fino allo status di veri e propri divi.  6/10

“Mai mi fu dato di vedere un animale in cordoglio di sé. Un uccelletto cadrà morto di gelo giù dal ramo senza aver provato mai pena per sé stesso…”

L’ambiziosa senatrice del Texas Lillian Dehaven (la grande Anne Bancroft ), decide di usare, come baluardo della sua ambizione politica, l’integrazione della figura femminile ai vertici di un’arma specializzata e tutta tradizionalmente al maschile come è quella dei Navy Seals.

Come pioniera della introduzione delle donne in questo comparto, una rigida selezione individua la tosta tenente della marina militare, Jordan O’Neill ( Demi Moore ), che, non solo accetta, ma si sottopone senza tentennamenti a un durissimo corso di ammissione lungo tre mesi.

Poi però, resasi conto che, più che una pioniera, la militare costituisce uno strumento di propaganda elettorale e politica, la tenace Jordan si ribella alla stessa sua superiore, soprattutto quando si renderà conto che l’organizzazione le sta riservando trattamenti di favore per permetterle di raggiungere lo scopo di quel suo corso di preparazione. Rasandosi i capelli per dare un addio esemplare al suo status idealizzato di donna con privilegi, esigerà di unirsi in tutto e per tutto alla squadra, finendo per scontrarsi con la stessa senatrice sua promotrice e sostenitrice, in realtà più che mai una politicante propensa a utilizzare le sue pedine per raggiungere i suoi ambiziosi traguardi di comando.

Infarcito di retorica ed enfatico in modo sin fastidioso e puerile, Soldato Jane, frutto di una sceneggiatura triviale che utilizza l’argomento della parità di genere solo per aizzare istinti testosteronici e primari, che derivano da una scrittura sommaria e provocatoria a cura dell’altrove assai più ispirato e brillante sceneggiatore e regista David Twohy (quello della saga Pitch Black), riporta il cinema made in Usa ai livelli del puerile e guerrafondaio Top Gun di dodici anni prima, diretto dal fratelo di Ridley, Tony Scott.

Certo Demi Moore ci mette corpo (e che fisico!!) e anima, e Anne Bancroft è assai godibile nel suo ruolo di maliarda di vertici del potere, mentre bravi attori come Viggo Mortensen e Jim Caviezel si accontentano del ruolo non proprio stimolante di spalla di cotanto spiccato orgoglio femminile.

Ridley Scott dirige con il solito tocco grandioso e proteso ad esaltare l’action, ma stavolta il suo tocco risulta sin troppo patinato e artificiale. 4/10

“A nessuno arriva mai qualcosa che non sia in grado di sopportare.”

Nell’antica Roma dell’imperatore Marco Aurelio, il generale Massimo Decimo Meridio ( Russell Crowe ) finisce per essere vittima di una congiura ordita dal figlio del re, il perfido e folle Commodo (Joaquin Phoenix ), che assassina il padre, fa scempio della famiglia del nostro soldato, e riduce il schiavitù lo stesso per liberarsene. Ma Massimo ricompare nell’arena romana nel ruolo di gladiatore, costretto a esibirsi assieme ad altri schiavi in sfide mortali per allietare lo spettacolo della corte del nuovo folle imperatore. Il guerriero saprà trovare proprio dal punto più basso raggiunto nel suo tribolato excursus vitae, la via della coerente vendetta.

“-Conquista la folla, e conquisterai la libertà.

-Conquisterò la folla, le darò qualcosa che non ha mai visto prima.”

Ridley Scott utilizza l’abile sceneggiatura di David Franzoni, John Logan e William Nicholson, liberamente tratta dal romanzo di Daniel P. Mannix Quelli che stanno per morire, per far ritorno alla grande dietro le scene, dando vita ad un film di grande successo, in grado di rilanciare il genere del peplum, da decenni ormai praticamente dato per estinto. Per merito, o colpa di Scott, si crearono altri fenomeni in costume come 300 e successivi sequel, e pure Scott fece ritorno al genere cinque anni dopo con l’apprezzato Le crociate. Oscar a gogò: miglior film, miglior attore protagonista, migliori costumi, miglior sonoro e migliori effetti visivi. 

Russel Crowe e Joaquim Phoenix diventano star indiscusse, il film entusiasma, Scott ci stupisce con tecniche di ripresa ardite che, coadiuvate dalla grafica computerizzata, si rivelano in grado di ricreare un’Antica Roma dell’opulenza dalle ardite costruzioni e dagli avveniristici monumenti.

Nonostante la minuziosa cura dei dettagli, il film non manca di incongruenze storiche e ingenuità evidenti, e difetta di frequenti dialoghi che attualizzano eccessivamente i modi di fare dei personaggi, restando  una delle pecche più evidenti di tutta la filmografia di Scott, ogni qualvolta il regista si dedichi a produzioni in costume (successe ancora almeno con Robin Hood e con il recentissimo The Last Duel ) . 7/10

Nell’ottobre del 1993 la Somalia appariva devastata e affamata dalla dittatura del folle Aidid, un uomo che arrivava al punto da distrarre gli aiuti umanitari occidentali destinati al suo popolo, per arricchirsi.

Le forze speciali internazionali, con a capo i marines americani, decidono di intervenire, ma quella che nasce come una operazione di routine, diviene un’impresa epica che ha come fulcro l’abbattimento di un elicottero da guerra, che viene a schiantarsi nella piazza centrale di Mogadiscio.

Il film, lungo oltre due ore e trenta, segue la resistenza dei soldati sopravvissuti e di quelli che giungono in capo per cercare di metterli in salvo, lungo quella sanguinosa e pericolosissima missione conosciuta come “Restore Hope”, e portata avanti in particolare sotto l’egida delle Nazioni Unite, che ha coinvolto, in particolare, truppe statunitensi, pakistane, malesi.

Al centro dell’azione un velivolo militare, il Black Hawk Super 6-1, che, poco dopo il decollo, precipitò nella piazza dove era partito a causa di un razzo lanciato contro il rotore di coda, che causò una rotazione su se stesso dell’elicottero, prima di farlo schiantare a terra. Tutti gli altri uomini in zona, con i relativi mezzi di trasporto, vennero fatti confluire in loco per salvare i superstiti, e, con l’occasione, finirono per recuperare altri feriti poco lontano, nell’ambito del medesimo scontro.

Ridley Scott , completamente a suo agio nel filmare la dinamica ininterrotta di uno scontro sanguinoso e senza precedenti, riesce quasi a catapultare il suo pubblico in quella piazza, in mezzo al fragore del fuoco incrociato che oppone le due parti in combattimento.

La tecnica di regia è mirabile, ed il film merita pienamente i due premi Oscar ottenuti per il Miglior montaggio (al nostro Pietro Scalia), e per il Miglior sonoro.

Il realismo del campo di battaglia, il fragore degli effetti sonori, l’incessante senso di assedio che si prolunga lungo tutto il corso della vicenda, rendono il film un percorso negli inferi di una battaglia che difficilmente si riesce a scordare.

Il cast, tutto al maschile, vanta nomi di grido come  Josh Harnett, Ewan McGregor, Tom Sizemore, Eric Bana, Orlando Bloom, William Fichtner, Ewen Bremner  e  Sam Shepard : ma nessuno di loro, pur con l’impegno profuso, riesce a ritagliarsi un vero ruolo di riferimento, perché nel film il protagonista assoluto resta il campo di battaglia, e l’orrore della guerra e della violenza che essa si porta appresso.

“ Devo confessarle che sto pensando seriamente di mangiare sua moglie….”

Dopo circa un decennio dai fatti occorsi ne Il silenzio degli innocenti, e la tosta Clarice Starling (stavolta la staffetta passa da Jodie Foster a Julianne Moore ) viene coinvolta in un concitata operazione volta a sgominare una banda di narcotrafficanti capitanati da una criminale che la stessa agente, per legittima difesa, finirà per uccidere. Nonostante le attenuanti del caso, per la Sterling quel gesto le comporta un periodo di inchieste, polemiche e difficoltà che incidono non poco sulla sua carriera, adombrandola; almeno fino al giorno in cui il suo capo, per cercare di riscattarla, offre all’agente l’opportunità di rimettersi sulle tracce del diabolico Dottor Hannibal Lecter (sempre un perfetto e pertinente Anthony Hopkins ), sparito dalla circolazione da oltre dieci anni, dopo aver a suo modo contribuito all’arresto del maniaco “Buffalo Bill”.

Il mandante delle indagini è un torbido magnate conoscente del capo della polizia, tal Verger ( Gary Oldman ) che anni prima sopravvisse alla furia famelica del cannibale, e ora, sfigurato e assetato di vendetta, cerca di catturarlo da tempo anche grazie a taglie milionarie.

Hannibal scopriamo risiedere a Firenze, dove il sadico criminale si è rifugiato, riciclandosi sotto mentite spoglie in un tranquillo bibliotecario.

Qui un tenace ispettore di polizia ( Giancarlo Giannini ) è impegnato a stanare il maniaco, allettato dalla taglia posta sul ricercato, ma finirà per fare una bruttissima e plateale fine, squarciato e dilaniato con perfetta coerenza alle vecchie abitudini del cannibale.

Braccato, Hannibal farà ritorno negli Usa, e appena in tempo a contattare la sua affezionata Clarice, prima di essere sequestrato dagli scagnozzi del rancoroso Verger. La stessa Clarice viene coinvolta in false indagini a suo carico messe in piedi tal torbido dottor Krendler ( Ray Liotta ), socio di Verger, che tenta di scaricarsi della scomoda agente per dedicarsi da solo alla sua opera di sadica vendetta sul cannibale.

Ma sarà proprio Clarice a liberare Lecter, che riuscirà ad agire facendo in modo che i maiali carnivori della stalla di Verger sbranino gli scagnozzi del miliardario e pure lo stesso vendicativo miliardario.

L’epilogo sarà di tipo culinario ai danni del non meno perfido dottor Krendler, a cui un sarcastico Hannibal sbranerà da vivo il cervello, prima di darsi nuovamente alla fuga.

“Di norma il cervello non sente dolore. Quindi il nostro amico Paul non sentirà la mancanza di questo pezzo, il lobo pre-frontale, che dicono sia la sede delle buone maniere…”.

E il sottofinale con Lecter in aereo che offre un pranzo alternativo a un bimbo capriccioso, risulta piuttosto divertente.

“Dopotutto, come ti dirà tua madre, e come diceva la mia, è molto importante provare sempre cose nuove”.

Dall’omonimo romanzo di Thomas Harris , barocco e pulp ma non certo all’altezza dei primi due da cui furono tratti sia Il silenzio degli innocenti, sia l’altrettanto esemplare Manhunter di Michael Mann, Ridley Scott dirige un film sontuoso e a largo budget, trasposto sullo schermo da nomi celebri come David Mamet e Steven Zaillian .

Lo sforzo produttivo è notevole, e Scott gira con la solita potenza di immagini, immortalando, in particolare, una Firenze insieme sontuosa ed inquietante.

Cast robusto, con Julianne Moore che non sfigura nei panni della nuova Clarice, e con un buon supporto di secondi ruoli italiani (impegnati nei vari ruoli ricordiamo Francesca Neri e  Enrico Lo Verso ).

Ma il film, così come il libro, non convince completamente, affossato sin troppo dal grottesco grandguignol che trapela già dalle pagine del romanzo. 6/10

Storia di truffe e di imbroglioni, oltre che di sane fobie e nevrosi fuori controllo.

Il fobico e nevrotico ladro di professione Roy Waller ( Nicolas Cage ), è un geniale organizzatore di truffe che gli consentono un tenore di vita elevato. Tuttavia non riesce a goderselo appieno proprio a causa del disagio che l’uomo vive nell’affrontare la folla e le situazioni che lo costringano a rapportarsi con l’esterno.

Lo aiuta il suo non meno esperto complice Frank Mercer ( Sam Rockwell ), e tutto procede bene sino al giorno in cui si presenta dinanzi a Roy la giovane Angela, che lo informa di essere sua figlia.

Quella notizia, e il cambio inaspettato del proprio psicologo, gettano subbuglio nella vita ordinaria di Roy, che tuttavia riesce a superare lo shock del nuovo medico e delle nuove cure che questi gli impartisce, proprio grazie alla presenza della dinamica figlia, che presto si dimostrerà una ladra non meno dotata del padre.

I colpi del nuovo terzetto funzionano, fino al giorno in cui una vittima si ribella e finisce per seguire i tre e minacciarli. Angela interviene sparando al derubato, e i tre si danno alla fuga.

Alcune ulteriori vicissitudini renderanno chiaro a Roy dapprima di esser stato raggirato non solo dal socio storico, ma pure da Angela, che si rivela diversa da come si era presentata. In realtà, è un tassello di un diabolico complotto ordito ai danni dello stesso Roy.

Pur con una struttura concitata da thriller, Matchstick Men (questo il titolo originale dell’opera), è in realtà una commedia scatenata, che permette a Ridley Scott di confrontarsi alla grande con questo genere per la prima vera volta in tutta la sua carriera.

La sceneggiatura, ad opera dei fratelli Nicholas e Ted Griffin , fila liscia alla perfezione e Scott dirige con la consueta e mirabile tecnica grintosa che riesce a eliminare ogni tempo morto e a conferire al film ritmo e verve in grado di assicurare uno spettacolo davvero godibile.

Grande coppia quella formata da Nicolas Cage e Sam Rockwell, autentico valore aggiunto di questa riuscita commedia d’azione, nonché attori ottimi, se non perfetti, a rendere palpabile il nervosismo che anima i personaggi.

Carina e ben scelta la “piccola” Alison Lohman , con quella sua fisionomia esile che comunica tenerezza e cela la tostaggine  del suo personaggio di ingannatrice.

Tra i cameo, la affiatata consorte di Scott, Giannina Facio , appare anche stavolta nei panni di una accomodante e obbediente cassiera di banca.

ALL THE INVISIBLE CHILDREN (2005) – episodio JONATHAN

“La beatitudine era nell’alba dell’esser vivi, ma l’esser giovani era il vero paradiso!” – Wordsworth

Tornato a casa dalla moglie ( Kelly MacDonald ), dopo l’ultimo devastante reportage sulle trincee di guerra, un celebre fotografo ( David Thewlis ) comincia a provare sempre più impellente un sentimento di rifiuto per il suo lavoro, una repulsione per questo suo instancabile sforzo di documentazione attraverso il quale egli si trasforma in testimone ufficiale dell’orrore degli scontri bellici.

Uscito dalla bella casa di campagna, si inoltra nel bosco e, improvvisamente, il suo corpo di uomo di mezza età torna quasi per magia ragazzo, per ripercorrere gli stessi luoghi, incontrando altri ragazzi della sua età, che lo accolgono, familiarizzano, collaborano per far fronte a un’avventura dai risvolti drammatici. Si trovano  in mezzo a un focolaio di guerra non dissimile da quelli che egli ha documentato nella sua carriera, e che ora lo hanno portato a un livello di angoscia che pare senza soluzione.

Stavolta però lo sguardo disincantato della giovinezza potrà cercare di far vedere, al nostro fotografo-bambino, la cruda realtà sotto una nuova luce, aiutandolo a ritrovare quella fiducia nell’umanità che da adulto gli era parso, sino a poco prima, ormai perduta.

“Ci sono bambini che non hanno mai conosciuto la pace, ma che hanno un enorme capacità di sopravvivenza e l’istinto di prendersi cura uno dell’altro. Una volta ho letto questa frase: Nella vita l’amicizia riesce a moltiplicare il bene e a ripartire il male…”

Il cortometraggio, diretto da Ridley Scott assieme al figlio Jordan , fa parte di un film antologico presentato per la prima volta alla Mostra del cinema di Venezia del 2005, in cui sette registi, a volte assai famosi (ci sono, tra gli altri, pure Kusturica, Spike Lee, John Woo), si concentrano su una tematica drammatica come lo sfruttamento dell’infanzia.

Argomento spinoso, per il quale il rischi di incorrere nella più sfacciata retorica è forte. Tuttavia il breve film di Scott and son, si rivela come uno dei più raffinati e tecnicamente riusciti del gruppo. 6/10

“Non avere timore innanzi ai tuoi nemici, sii impavido e retto cosicché Dio possa amarti, dì sempre il vero, anche se ti conduce alla morte; salvaguarda gli indifesi e non fare torti. É il tuo giuramento.”

Nella Francia di fine 1100, un giovane maniscalco francese, Baliano ( Orlando Bloom ) devastato dopo la morte della giovane moglie, viene accusato di aver ucciso il prete del suo borgo, e per discolparsi e non finire sulla forca, è costretto alla fuga.

Riesce a trovare il suo vero genitore, ovvero il cavaliere Goffredo ( Liam Neeson ), diretto in Terra Santa per gestire i suoi possedimenti, e si convince a seguirlo. Ma poi, quando quest’ultimo viene ucciso dai francesi che danno la caccia al figlio, e prima di morire, fa pronunciare al suo erede il giuramento dei cavalieri. Ecco che Baliano si trova anche moralmente impegnato a proseguire il viaggio verso Gerusalemme.

Lì, inizierà ad imparare a gestire i possedimenti terrieri ereditati, e si impegnerà a difendere il re Baldovino ( Edward Norton ), che morirà prematuramente di lebbra, contro le trame di Guido di Lusignano (Marton Csokas ) e sua moglie Sibilla ( Eva Green ), sorella del re stesso, che desiderano provocare una guerra dell’esercito contro i saraceni del potente Saladino.

Sarà proprio l’ex mansueto maniscalco a dimostrarsi il tassello vincente per sconfiggere l’attacco dei saraceni, grazie a un accordo con il potente capo dei nemici Saladino.

Tornato in Francia, verrà contattato dal re Riccardo Cuor di Leone ( Iain Glen ) per fargli da cavaliere per una nuova crociata, ma Baliano si schermirà, dichiarando di essere un semplice maniscalco, come in effetti era stato solo pochi anni prima.

Cinque anni dopo il grande successo del film in costume Il gladiatore, che ebbe il merito, fra gli altri, di resuscitare un genere che si pensava decaduto come quello del “peplum”, Ridley Scott torna al film “di cappa e spada”, ripercorrendo un periodo storico successivo di diversi secoli, in pieno Medioevo, all’epoca appunto delle fantomatiche Crociate, di cui gli episodi narrati costituiscono solo una parte.

Per chi si fosse aspettato qualcosa di più forte in grado di far luce su uno dei momenti più discutibili e bui della Chiesa romana nella sua spregiudicata opera di evangelizzazione, atta a celare una vera e propria missione di conquista materiale, tutt’altro che spirituale, rimarrà un po’ deluso.

Per chi predilige la narrazione avventurosa, le scene di combattimento e gli intrighi di corte, avrà pane per i suoi denti, e Ridley Scott , che si destreggia con il solito collaudato mestiere in grandi momenti action e scene di massa abilmente ricostruite con supporti di validi effetti scenici e computerizzati, si fa garante di un prodotto di valido intrattenimento. 

Forse non risulterà appassionante ed epidermico come Il gladiatore, ma, a differenza di quest’ultimo, appare storicamente certo più compatibile e meno costellato di incongruità storiche, o di imprudenti attualizzazioni di gesti, modi di esprimersi e comportamenti. 7/10

“Un uomo dovrebbe riconoscere le proprie sconfitte garbatamente, così come festeggia le sue vittorie, Max. Col tempo vedrai che un uomo non impara niente quando vince. Perdere invece può condurre a grande saggezza.”

Max Skinner ( Russell Crowe ) è un astuto manager di borsa londinese, dal fiuto infallibile e dalla fama di cinico uomo senza scrupoli.

 Orfano dei genitori, ha come unico parente un vecchio zio di nome Henry (Albert Finney )  che possiede una grande tenuta agricola adibita a vigna in Provenza, nel Sud Est francese. Costui lo ha sempre ospitato da ragazzo durante le estati e Max serba ricordi fantastici della sua infanzia in quei luoghi. Il giorno in cui lo zio muore improvvisamente, Max risulta quale unico erede del vecchio, e pertanto deve lasciare gli affari per tornare in Francia ad occuparsi di come alienare quella proprietà.

Nel raggiungere la villa, si imbatte in una bella ragazza francese ( Marion Cotillard ) che quasi investe. In seguito, lei avrà modo di vendicarsi dell’affronto subito, ma poi finiranno a fare amicizia.

Poco dopo si materializzapure una bella americana ( Abbie Cornish ) che si presenta come la figlia illegittima di zio Henry, e che subito Max tratta con una certa diffidenza.

“É quando tutti ti odiano che ci si diverte!”

Costretto a soggiornare per una settimana in quel luogo paradisiaco a causa di un affare londinese imprevedibilmente saltato all’ultimo minuto, Max si renderà  conto che la sua vita ha bisogno di una svolta. Trova un mondo dove vivere e occupandosi dell’azienda agricola, un po’ abbandonata a se stessa.

Come in una favola, l’ex cinico broker finirà per innamorarsi della bella francese semi-investita durante il loro primo approccio, e farà anche in modo che la tenuta venga ereditata dalla presunta figlia illegittima dello zio, riciclandosi infine come viticoltore.

Dall’omonimo romanzo di Peter Mayle, Ridley Scott torna in zona commedia, dopo il successo di critica ottenuto col brillante ed esilarante Il genio della truffa, ma la commedia, svenevole e melensa, si rivela un vero bluff e uno dei punti più bassi e scontati della variegata carriera del celebre cineasta.

Il film, pur amato sconsideratamente da una buona parte del pubblico, non riscontrò particolare successo all’uscita in sala, ma ebbe il merito di lanciare nel jet set hollywoodiano la futura diva francese Marion Cotillard.

Russell Crowe torna a lavorare, dopo Il gladiatore,  con Scott, con il quale strinse un vero e proprio sodalizio per gli anni a venire, grazie al quale i due vantano ben 5 film girati assieme. 4/10

“ Puoi essere un uomo di successo e avere dei nemici, oppure puoi non essere un uomo di successo e avere degli amici. Devi scegliere.”

La vita del boss in ascesa Frank Lukas ( Denzel Washington ) e quella del tenace detective Richie Roberts (Russell Crowe ) si incrociano ad inizi anni ’70, quando la fortuna del primo nella gestione del suo clan di trafficanti diviene plateale con lo smercio di una droga purissima a prezzi relativamente bassi. Proviene dalla Thailandia; si chiamata Blue Magic, e viene spedita in bare di militari e patrioti morti all’estero, soprattutto nella guerra del Vietnam, poi caricate su aerei per essere rimpatriate.

Alla fine, la vita già complicata a livello famigliare del poliziotto Roberts, tra divorzi e amori difficili con una legale che conosce durante i suoi studi fuoricorso nella facoltà di legge, si concentra sulle attività del boss, che finirà per conoscere e per arrestare.

“Pensi che mettendomi in prigione tutto finirà? No, lo farà qualcun altro…”. 

Tra i due, tuttavia, resterà un rispetto reciproco che il poliziotto saprà riconoscere e ripagare quando il boss, una volta arrestato, diverrà un collaboratore di giustizia, aiutando il suo rivale a compiere molti arresti nel comparto dello spaccio di grossi volumi di stupefacenti.

Roberts anzi conseguirà la tanto sospirata laurea in legge e diverrà l’avvocato difensore del boss, aiutandolo a farsi ridurre sensibilmente la pena originaria non molto dissimile a un ergastolo.

La storia di due acerrimi nemici-amici, tratta da una sceneggiatura che il valente Steven Zaillian , anche produttore assieme a Scott e Brian Grazer, trasse da un articolo di cronaca di Marc Jacobson intitolato The return of Superfly, è diretta con la solita verve da Ridley Scott. Scott dà un tocco da maestro a una pellicola che si concede alcune belle scene d’azione, in cui tutta la maestria del regista navigato viene a galla, e permette altresì a due star dal forte appeal, come appaiono i singoli membri della inedita coppia Washington/Crowe, di trasmettere il meglio nel rendere ognuno il proprio personaggio pieno di contraddizioni, alti e bassi, carattere determinato, ma mai a senso unico nel doversi confrontare tra bene e male.  7/10

“Devi decidere da quale parte della croce stai: o pianti i chiodi, o stai appeso”.

I differenti modi di intendere la caccia ai boss di Al Qaeda, da parte della CIA, si riassumono nelle figure contrastanti dell’agente sul campo tutto scrupoli e cuore pulsante, Roger Ferris ( Leonardo Di Caprio ), e in quello, freddo e spregiudicato, che opera on line e con utilizzo di droni spara missili mentre cura le faccende di famiglia, Ed Hoffman (un Russell Crowe visibilmente sovrappeso), che è pure il capo del primo.

Differenti metodi per un unico risultato: quello di reagire e trovare una soluzione agli attentati che dal Medioriente si prefiggono di minare la tranquillità e il quieto vivere di un Occidente nel quale tali paesi ritrovano l’essenza del male che può sconvolgerne costumi e scelte di vita.

Due prospettive, due sguardi: quello implacabile dall’alto di un uomo un po’ bolso (Crowe) che non ha nulla di marziale per raffigurare un micidiale combattente, come dimostrano i risultati che ottiene, e uno (Di Caprio) con il corpo insanguinato dei segni della lotta sul campo, e che vive la sua battaglia in balia di un pericolo più tattile ed epidermico.

Ma anche due mondi: l’Occidente supponente e risolutore che si erge a bene assoluto, e un Medioriente colpevolizzato a priori, invaso e snaturato, che tenta di vendicarsi con azioni e attentati a sorpresa.

“ Voi arabi avete inventato l’algebra, ma noi americani l’abbiamo usata…”.

Dal romanzo di un giornalista di guerra del Washington Post, David Ignatius, lo sceneggiatore William Monahan trae uno script teso e forse sin troppo complesso e caotico che, tuttavia, permette a Ridley Scott di dar sfogo a tutta la sua potenza visiva e di ripresa.  Lasciando che le molteplici telecamere del suo set forniscano l’occasione per catturare al meglio quel senso di azione impellente e cruciale che il montaggio frenetico sa assemblare in modo opportuno. Permettendo allo spettatore di giostrarsi tra location sempre diverse e situazioni piuttosto complesse, senza tuttavia smarrire quel senso di azione che pervade nelle molte scene che contraddistinguono la caccia all’attentatore.

Il film può contare sulla carismatica coppia Di Caprio/Crowe, a cui si aggiunga l’ottimo Mark Strong nel ruolo del capo dell’intelligence giordana Hani Salaam, oltre la bella infermiera Aisha, resa con pathos dalla star iraniana Golshifteh Farahani . 6/10

“Ribellarsi e ribellarsi ancora, finché gli agnelli diverranno leoni!”

Anche Ridley Scott si cimenta nell’ennesima trasposizione dell’omonimo romanzo di Alexandre Dumas incentrato sul famosissimo ladro buono, ovvero quello che “rubava ai ricchi per dare ai poveri”.

In questa versione l’arciere Robin Longstride ( Russell Crowe ) sta tornando dalla guerra in cui ha combattuto valorosamente a fianco del suo re Riccardo Cuor di Leone contro i Francesi.

La sceneggiatura, scritta dal bravo sceneggiatore e regista Brian Hengeland , decide di stravolgere il romanzo originario facendo morire Re Riccardo ancora in battaglia, e creando la circostanza che induce Robin a tentare di far ritorno nella sua Inghilterra, ove, sotto le mentite spoglie del defunto cavaliere Sir Robert, ucciso dal perfido traditore Godfrey ( Mark Strong ), nobile inglese fedele al re di Francia, armerà uno squadrone di suoi fedeli per spodestare il nuovo perfido re, Giovanni ( Oscar Isaac ), innamorandosi della giovane vedova di Sir Robert, ovvero la bella e algida Lady Marion ( Cate Blanchett ).

“Le leggi di questa terra hanno reso il popolo schiavo del suo re: date potere ad ogni uomo, ed acquisterete forza.”

Dopo le storiche versioni dell’epoca degli albori cinematografici, con i Robin Hood interpretati da Douglas Fairbanks nel 1922, da Errol Flynn nel 1938, dopo la splendida versione animata e con animali antropomorfi di Walt Disney del 1973; dopo l’inedito Robin invecchiato di Sean Connery di Robin e Mariam del 1976 (con Audrey Hepburn nei panni di una tenera Mariam); dopo il successo totale del Principe dei ladri del 1991 di Kevin Reynolds di fandango col piacione Kevin Costner, in un film svenevole e smielato che si avvale tuttavia di un fantastico perfido sceriffo di Nottingham reso dal compianto Alan Rickman, ecco che la versione tecnicamente realistica, ma assai difforme rispetto al romanzo originale di Dumas, diretta da Scott, finisce per deludere e rivelarsi una storia poco avvincente e così poco romantica da non saper accontentare nessuna fascia di pubblico.

Quasi che il film, pur sontuoso e ben girato, si riducesse ad una dispendiosa ricostruzione storica, che tuttavia, nonostante il tocco grandioso a firma di Scott, poggia su aspetti e fatti decisamente travisati o non corrispondenti a quelli reali, storici, documentati.

E, ammettiamolo, pure la coppia Crowe/Blanchett, perfetta sulla carta, non appare mai davvero in sintonia o in grado di aggiungere quel pizzico di pathos che manca decisamente lungo tutto il racconto, solo formalmente impeccabile. 5/10

Prometheus è una gioia per gli occhi, per la mente, anche grazie alla piacevolezza di sentirsi nuovamente come quel bambino decenne che andava con papà e sorella ad emozionarsi vedendo per la prima volta “Guerre stellari” al cinema. Ridley Scott, si sa, è particolarmente ispirato quando si tratta di fantascienza e il prequel del suo irraggiungibile (o quasi, perché Aliens di Cameron non era da meno! Alien, centra ogni bersaglio per avvincere, stupire, attanagliarti alla poltrona in due ore che corrono via a razzo).

La storia inizia quando la tosta ricercatrice Shaw (una soda, atletica Noomi Rapace ) scopre, attorno al 2089, un graffito primordiale in una grotta che riproduce una costellazione in grado di confermare gli indizi che altre antiche e illuminate civiltà avevano lasciato circa l’origine della razza umana. Qualche anno più tardi, la donna si risveglia in un’astronave (il Prometheus) diretta proprio verso il pianeta da cui parrebbe avere origine l’intera specie vivente terrestre. La missione alterna l’intento esplorativo/conoscitivo a quello più commerciale/lucrativo. Cosa che crea nell’equipaggio un conflitto rappresentato dalla figura delle due donne protagoniste: oltre alla Shaw/Rapace. la cinica e razionale Meredith/Theron.

Scopriamo inoltre, dalle prime seducenti immagini del film che ci illustrano l’origine del nostro mondo, perché “per creare una nuova civiltà bisogna distruggerne un’altra” e come la misteriosa e fisicamente armoniosa razza definita in gergo degli “ingegneri” (così almeno vengono tradotti nella versione francese), si immola alla causa determinando la nascita della specie umana vivente (altro che scimmie e primati!).

Attraverso la scoperta di quello che cela il misterioso pianeta, il film riesce a spiegarci, proprio alla fine nel suo rutilante epilogo, come ebbe origine la razza dei predatori assassini che ha popolato con successo ed ottimi esiti artistici (e commerciali) gli ultimi trent’anni della nostra fantascienza.

In mezzo a tutta questa baraonda di effetti speciali e sana indigestione di immagini, spicca un equipaggio che vede distinguersi nei ruoli più degni di nota un Michael Fassbender , educato ed impeccabile androide che conduce (tendenziosamente) il gioco (al massacro) nel microcosmo rappresentato dall’astronave; Charlize Theron nei panni della donna fredda e manageriale Meredith Vickers, che contrappone la sua altera inflessibilità e gestione gelida del suo incarico “commerciale” al caldo entusiasmo che percorre le vene della scienziata Shaw e del suo compagno Holloway, più concentrati invece  sull’aspetto conoscitivo della missione a scapito di quello più grettamente remunerativo.

Riprese maestose ed emozionanti fanno da cornice ad una vicenda che Scott dirige con polso sicuro e collaudato, pur non rinunciando ai suoi vezzi, magari per il pubblico, un po’ superflui (fra cui quello di far apparire, come in ogni film, anche per pochi attimi, l’amata e seducente moglie italiana Giannina Facio ), ad alcune convenzionali ed un po’ abusate scene di intimità’ da “vita in astronave”; piccole concessioni o banalità che sono tuttavia riscattate da un montaggio serrato (a cura dell’italiano Piero Scalia ) e da effetti speciali che il 3D esalta e rende (per una volta lo ammetto) ancora più suadenti e stupefacenti.

L’efficace ed orecchiabile (pur nella sua austerità) commento musicale conferisce al film l’ulteriore conferma di come un prodotto studiato nei minimi particolari per ottenere un riscontro di massa possa comunque anche rivelarsi un ottimo prodotto in termini di qualità artistica. Spesso e per fortuna con Scott ci troviamo di fronte a questa positiva e rara circostanza in cui budget economico e identità autoriale non si escludono vicendevolmente. La grandezza di questo celebre uomo di cinema risiede, a mio avviso, soprattutto nella innata e non comune capacità di riuscire quasi sempre a rispettare e valorizzare entrambi questi lati antitetici della medaglia. E la fantascienza, dopo anni di basso profilo a causa anche di una crisi economica senza precedenti che tutto può farci pensare fuorché a concentrarci su problemi così lontani, fuorvianti (e dispendiosi) da quelli inerenti la sopravvivenza fisica e l’arrivo a fine mese, torna dunque – grazie ad uno dei suoi più eccellenti rappresentanti – a toccare le vette più alte raggiunte dai colossal più celebrati dell’ultimo trentennio. 8/10

Nel mondo spietato, ironico e violentissimo di Corman McCarthy , i soldi vengono prima di ogni altra cosa: per questo il giovane e ambizioso procuratore senza nome (nel senso che non ci viene rivelato mai in tutta la tortuosa vicenda), Michael Fassbender, non esita a invischiarsi in un’operazione irrinunciabile col proposito di fare una “toccata e fuga” per procurarsi le finanze e sposarsi con l’amata Laura e tornare al suo lavoro di scrupoloso avvocato.

Peccato che rubare al “cartello” che gestisce il traffico di droga tra Messico e Stati Uniti, significhi, di fatto e inesorabilmente, un suicidio annunciato per l’ambizioso ma ingenuo protagonista. Gli toccherà sopportare un lungo e doloroso calvario e a soffrire saranno sempre le persone a lui più vicine. In un crescendo di tensione e violenza, avvinti da un intrigo che cattura nonostante una certa complessità della trama (McCarthy cattura quasi sempre nei suoi romanzi, ma non è quasi mai elementare nel strutturare le sue storie, spesso piuttosto complesse e ingarbugliate), assistiamo a una macchinazione diabolica. Quasi per caso, il nostro “counselor” viene risucchiato in una vicenda in cui non c’entra nulla e di conseguenza associato al furto del camion di cocaina da venti milioni di dollari, in cui invece c’entra, eccome.

A facilitare lo smascheramento contribuisce certamente la sinistra e maligna figura di Malkina, una biondona mozzafiato tatuata da leopardo in linea con i due ghepardi che il suo uomo Reiner, ricco tenutario di locali e amico “tentatore” del protagonista, alleva in giardino come fossero gattini. Ben presto si scoprirà chi comanda e chi invece ci rimette la pelle, chi muove le fila di una vicenda che non concede scampo a nessuno e chi invece deve morire solo per il fatto di essere vicina a chi è responsabile di tutta la furia che  ne deriva.

Come spesso accade con McCarthy, anche stavolta lo scrittore introduce nella trama strumenti di morte eccentrici e singolari. Una semplice fune d’acciaio tesa ad attraversare una strada deserta servirà a decapitare di netto uno spacciatore di diamanti che sopraggiunge a tutta velocità sulla sua potente moto, innescando l’acceleratore sul coinvolgimento del protagonista nel losco affare di droga.

Inoltre nuovamente un cavo d’acciaio sottile fatto scorrere sul collo e stretto inesorabilmente da un congegno telecomandato, costituirà una sorta di micidiale garrota in grado anch’essa di recidere la giugulare fino alla decapitazione. Scene impressionanti che scivolano via in un crescendo di suspense dove, una volta ancora, comprendiamo come il denaro e tutto ciò che vale (i diamanti sono molto più comodi, “con essi hai venti milioni di dollari che puoi custodire in una mano” rivela la cinica Malinka al boss del cartello verso la fine, quando anche a noi del pubblico la diabolica ci rivelerà le sue prossime mosse) siano il modo per rendere più spietati delle belve una umanità che non crede più in nulla, se non nella potenza della materia e del possesso.

In una città messicana non molto dissimile da una bidonville brasiliana, qui distrutta e annientata dalle faide delle varie fazioni contendenti il mercato degli stupefacenti, smossa solo lievemente da movimenti di denuncia contro le oltre tremila persone decedute nell’anno in modo violento per mano delle guerre tra narcotrafficanti, Ridley Scott si destreggia con la solita potenza visiva a filmare cinque attori favolosi, tra i più gettonati e glamour del momento.

E se è singolare ritrovare assieme due bellezze antitetiche come Cameron Diaz e Penelope Cruz (dopo Vanilla sky, ma ora è la Cruz, a differenza che nella precedente occasione, a fare la vittima sacrificale), va rimarcato che proprio nella Diaz e nell’ottimo (come di consueto) Fassbender troviamo le eccellenze di un film che ricorda molto, specie come atmosfere malate e violente, Le Belve di Oliver Stone tratto dal bel romanzo di Wislow.

Per i feticisti inesauribili, ma pure semplicemente per i curiosi, inevitabilmente amanti della ricerca dell’immancabile cameo, ebbene anche stavolta possiamo accorgerci che la sig.ra Ridley Scott, alias Giannina Facio appare in ben due inquadrature, messe come sempre poco più che per caso come atto di galanteria di un marito nei confronti della consorte.

The counselor è ancora una volta un film riuscito, intrigante, confezionato impeccabilmente da un grande cineasta che sa destreggiarsi molto bene anche come stratega commerciale, perfettamente in grado di conciliare stile e narrazione, senza dimenticare gli ingredienti tattici e le astuzie in grado di rendere il prodotto appetibile alle masse e quindi capace di sostenersi economicamente in modo autonomo. 8/10

A Ridley Scott, gran regista eclettico e cult sin dai lontani esordi, tuffarsi a capofitto nei dettagli delle grandi civiltà del passato piace evidentemente parecchio, se sempre più spesso lo ritroviamo impegnato a confrontarsi con nuovi adattamenti di fatti, personaggi e miti del passato, già ampiamente rappresentati dal cinema in questi suoi oltre cent’anni di vita.

E dopo almeno due storiche riproduzioni, quella hollywoodiana sfavillante ad opera di Cecil B. DeMille con un torvo ed impietoso Charlton Heston, dopo la leggendaria versione televisiva italiana del ’74 seguita a furor di popolo da tutta la Penisola, con l’ottimo e più tollerante e pacato (rispetto al precedente) Burt Lancaster e la regia del completamente dimenticato Gianfranco De Bosio, ecco che la vita, le imprese dell’uomo che liberò gli ebrei dalla schiavitù tentando di offrir loro una terra promessa e definitiva (quella che cercano ancora oggi, per la verità) viene riproposta con la magniloquenza e il gran mestiere del grande regista inglese di Blade Runner.

Che, forte di un budget in linea con le produzioni dell’ultimo ventennio, con  EXODUS: DEI E RE  realizza un colossal visivamente stupefacente in stile DeMille, forte di un gran cast su cui primeggia, per risolutezza e tenacia, espressività e motivazioni non dissimili a personaggio reso da Heaton, un Christian Bale sempre più star incontrastata e dalla grande personalità.

La storia del Messia degli ebrei glissa velocemente sulla giovinezza di Mosè, tralasciando completamente la storia del bambino nella cesta salvato dalle acque dalla compassione della regina, e procedendo spedito sul finale con la stesura delle tavole dei comandamenti.

La storia infatti si concentra sulla cacciata di Mosé da parte del futuro faraone Ramses, inizialmente suo amico fraterno, almeno fino a che quest’ultimo non ne intuisce le potenzialità in grado di estirpargli di mano le redini del potere. Scappato sino all’oasi di Madlan, Mosè si sposa con una bella giovane di nome Zippora e conduce una vita da pastore, fino a che non viene chiamato da un emissario di Dio che, nelle vesti di un bambino, lo educa e lo guida fino al percorso di salvezza che portò un intero popolo, soggiogato e ridotto in schiavitù, a lasciare l’Egitto per raggiungere l’agognata terra promessa.

Un Dio rancoroso, pieno d’ira incontenibile questo che parla a Mosè: che non esita a gettare sugli esseri umano usurpatori delle libertà inviolabili le dieci piaghe che decimarono gli Egizi: eventi che l’occhio acrobatico e sofisticato di Scott si esalta a mostrare in tutta la loro incredibile furia devastatrice, sotto forma di enormi coccodrilli, di morie di pesci che creano acque insanguinate, poi nugoli di rane, poi vermi, poi cavallette, grandine grossa come sassi, orribili piaghe virulente sulla pelle e quant’altro. Poi l’incedere delle tenebre che si porta via tutti i bambini non protetti dal sangue dell’agnello, e poi la rocambolesca fuga nel deserto di un popolo intero, la camminata tra le acque ritiratesi per travolgere poco dopo la truppa egizia. Un carosello visivamente fantastico per una rappresentazione definitiva e sin concisa del percorso terreno lungo, accidentato e travolgente del padre degli ebrei. Un film certamente non necessario, ma che si adatta perfettamente allo spirito (se ne esiste ancora uno) del periodo natalizio.

E infatti questo Exodus è stato distribuito con pertinente tempismo in Francia proprio la vigilia del Natale, circostanza non permessa al contrario in Italia, dove l’esigenza di non ostruire troppo il percorso dei nostri terrificanti e ben triti, ma sempre più indigeribili cinepanettoni, ne prevede la postergazione a metà gennaio.

Exodus: Dei e Re non accende nuove luci straordinarie su una carriera registica forte di ben quattro o cinque pietre miliari della cinematografia di tutti i tempi, ma è un film sontuoso che accontenta la nostra sete di meraviglia visiva ormai abituata a tutto: la rappresentazione delle piaghe che si abbattono su una umanità ormai deviata e imbestialita, la fuga in massa tra un mare impetuoso pronto a richiudersi su se stesso e la scena dell’inseguimento sui sentieri montani del Sinai degli egizi, con cadute rovinose di carri e cavalli e frane devastanti, sono comunque grandi momenti di cinema che seppelliscono qualche noioso siparietto familiare e fanno dimenticare qualche tempo morto di raccordo. 7/10

Sulla scia di Gravity di Cuaron (che comunque a mio avviso è ben meglio del presente filmone), la serie della “fantascienza possibile” (seppur spesso poco plausibile …. ma intanto che ne sappiamo noi comuni mortali o poco informati di atmosfere marziane, di pressioni atmosferiche, se sia plausibile fasciare una capsula spaziale di solo nailon per alleggerirla e consentirgli di raggiungere la meta, di come si produce acqua combinando in modo poco più che casalingo o casereccio gli elementi chimici di cui essa è composta, di come sia possibile con l’acqua e pochi escrementi, due patate sottovuoto trovate in dispensa, produrre una piantagione di patate novelle da far invidia al nostro fruttivendolo di fiducia) si nutre e alimenta di una nuova illustre puntata, ad opera di un regista un tempo cult, ora solido, affidabile e prolifico cineasta al soldo delle majors.

Non siamo in un futuro lontanissimo, ma in un domani molto vicino in cui le missioni sul pianeta rosso sono quasi una routine per la Nasa e i suoi astronauti.

Poco prima del termine di una missione come tante, della durata di qualche anno, l’equipaggio americano di una navicella (“astronave” qui non suona realistico ed anzi stona con le dinamiche pseudo-possibiliste della pellicola) viene colto alla sprovvista da una tempesta violentissima, durante la quale il biologo del gruppo ( Matt Damon , in fondo una delle più valide garanzie di una certa dignità di fondo del prodotto) viene investito da brandelli di oggetti trascinati dalla corrente.

Vane le ricerche, tempo di sosta risicato oltre il quale la vita degli altri astronauti sarebbe stata compromessa; il computer di bordo che segnala la rottura della tuta del malcapitato, decretandone la morte certa da parte dei colleghi.

Il comandante ( Jessica Chastain , una meraviglia!!… come sempre del resto..) si trova costretta a prendere la decisione più difficile e dolorosa per un responsabile: abbandonare lo sventurato per salvaguardare il destino degli altri.

Ma, come suggerisce prepotentemente il titolo italiano, l’incidentato non è affatto morto: solo sul pianeta Marte, con trenta giorni di ossigeno di riserva e poco cibo a disposizione, l’uomo, dopo un breve periodo di smarrimento misto ad angoscia, mette a frutto tutte le sue conoscenze per procurarsi acqua e coltivare patate, riuscendo nel contempo a garantirsi ossigeno per organizzarsi, sopravvivere in un clima e un habitat chiaramente ostili ed inadatti, e farsi notare dalle sonde della Nasa, fin giù sulla Terra.

Come recuperare il sopravvissuto, diviene il fulcro delle oltre due ore che seguono in questo concitato inizio di film.

Un’opera che se da un lato si fa forza di una sceneggiatura nel suo complesso ben organizzata e robusta, ben orchestrata tra le vicende di un protagonista assoluto e una parte conclusiva in cui i comprimari trovano riscatto riconoscendosi nei caratteri e nelle singole sfaccettature, dall’altro non riesce a evitare gli stereotipi fastidiosi di una solita retorica americana, dell’allegrezza incontenibile, dell’ottimismo sfrenato tutto stelle e strisce, e inesorabilmente fuori luogo, con cui ci viene presentato l’uomo solo e troppo poco angosciato, forse perché inverosimilmente ma solidamente convinto delle proprie capacità, mai propenso alla disperazione più oscura e irreversibile (che sarebbe invece il sentimento più umanamente prevedibile in queste terribili circostanze).

Anzi, il Damon che parla da solo al registratore per lasciare un diario a chi potrà ascoltarlo dopo morto, quello che ironizza sulla disco music che è l’unica compagna rimasta ad allietare (si fa per dire) ore di lavoro dedicate ad un ingegnoso sostentamento, quello che lascia il saluto dell’addio ai genitori guardando l’orizzonte come un cowboy oltre confine, è davvero piuttosto fastidioso, ridondante. Pur se nella sua parte l’attore è mediamente bravo, al punto in cui ci si aspetta da un attore impegnato e capace quale egli è quasi sempre.

Per Ridley Scott, cineasta di cui si scrivevano trattati e saggi negli anni ’80, quando aveva all’attivo pochi film, ma tutti capolavori (I duellanti, Alien, Blade Runner, e forse anche Legend, capolavoro alla rovescia forse, ma dal fascino innegabile, seppur tendente alla stucchevolezza), la prolificità che lo vede intraprendere con cadenza pressoché annuale progetti anche molto ambiziosi e di grande impegno organizzativo (oltre che registico), da un lato ne svilisce da tempo (oltre un ventennio) il fascino da autore cult, dall’altro conferma la sua innegabile capacità di coniugare una certa costante dignità di risultato alle regole, decisamente meno ispirate, di un prodotto commerciale destinato a grandi incassi.

Sopravvissuto (o The Martian), forte di un cast da capogiro anche quando la vicenda ruota tutta attorno ad una sola persona, è un buon prodotto medio che avremmo apprezzato molto se accostato a un regista di routine o dal compianto, ma solido mestierante fratello Tony. Da Ridley invece, e da tempo ormai, ci attenderemmo di più artisticamente, e di meno quantitativamente.

Ma ritrovarlo ogni anno, puntuale e versatile nelle scelte di regia che affronta di pieno petto, da vero comandante o capitano Achab, alla fine non ci delude mai quanto ci verrebbe da temere ogni volta, prima di affrontare da spettatori nemmeno troppo smaliziati, ogni sua nuova prova o sfida (ahinoi astutamente calcolata). 6/10

TUTTI I SOLDI DEL MONDO (2017)

A fine anni ’40, il cinico e furbo uomo d’affari Jean Paul Getty fece fortuna col petrolio, diventando uno degli uomini più ricchi ed influenti dell’imprenditoria americana. La ricchezza poi, unita al suo interesse quasi morboso per le opere d’arte, per il collezionismo fatto di acquisti compiuti in modo losco, e di sotterfugi volti a strappare prezzi vantaggiosi per opere di valore decisamente più elevato, lo rese famoso anche come uno degli uomini più attaccati al denaro, e dunque tirchi, avidi, mai esistiti al mondo: la fama che lo accompagnava, fu superata dall’atteggiamento disumano ed egocentrico che l’uomo ostentò con fierezza e sprezzo per ogni logico sentimento parentale, quando il giovane nipote John Paul Getty III venne rapito a Roma, nel 1973, durante un lungo soggiorno in loco.

Un’idea che probabilmente diede il ragazzo stesso ai rapitori, avendo già in mente il ragazzo di simulare un falso rapimento per estorcere denari al ricco nonno avido e freddo. Fatto sta che una banda di scapestrati calabresi lo rapì e poi, impossibilitati a gestire la cura dell’ostaggio, lo vendettero alla ‘ndrangheta, decisamente più organizzata per questo genere di loschi commerci.

L’inflessibilità del vecchio di fronte alla richiesta di riscatto trasformò questo episodio, in quella che divenne probabilmente la più concitata e drammatica storia di rapimento mai avvenuta. Per buona pace degli organi di stampa, che fecero faville di fronte a questo prezioso mix di cronaca nera, scandali e mistero.

Il film di  Ridley Scott  – girato con ampi mezzi ed una scrupolosa ambientazione nel pieno rispetto di tempistiche e location, usi e dinamiche di vita di quegli anni ’70 italiani ingessati tra austerity e relativi blocchi del traffico, criminalità organizzata in ascesa, e gli immancabili scorci folkloristici che fanno impazzire lo sguardo straniero, ed in particolare americano – ne ripercorre i principali momenti, concentrandosi anche, tramite fulminei flash-back, in momenti del passato della vita del terribile ricco miliardario, letteralmente ossessionato dall’idea di non potere né volere disfarsi nemmeno di parte dei suoi immensi mezzi di sostentamento e laute rendite in costante geometrica crescita.

La vicenda si concentra sugli sforzi di una madre (la interpreta con impegno  Michelle Williams , molto attiva ultimamente), divorziata dal figlio debosciato e cocainomane del celebre miliardario, di cercare di indurre il tremendo suocero a pagare e a salvare quindi quel nipote verso il quale già da bambino il ricco uomo d’affari aveva già dimostrato sprezzo ed intenti ingannatori (la vicenda della statuetta egizia regalata come vera). E sull’intervento di un negoziatore privato (un  Mark Wahlberg  che fa di tutto per essere credibile, in parte riuscendoci), ingaggiato inizialmente dal Getty stesso, che finisce poi per curarsi quasi personalmente della vicenda, turbato dal comportamento freddo e distaccato del ricco cinico imprenditore.

Visto in versione originale (con sottotitoli in francese), il film denuncia senza reticenze le ingenuità che l’occhio americano quasi sempre ostenta su particolari, usi e tendenze di paesi distanti sia geograficamente che culturalmente.

Romain Duris , titolare di un ruolo piuttosto di primo piano (è il rapitore originario che cede l’ostaggio alla malavita organizzata, restandone il custode), viene fatto parlare italiano come lo fosse, e per questo l’attore, francese, fa quello che può per apparire credibile e celare (cosa impossibile), il suo marcato accento francofono.

Una certa folla di attori italiani di una certa notorietà appare in camei o ruoli di contorno (riconosciamo tra gli altri il redivivo  Nicolas Vaporidis ,  Marco Leonardi , non certo nuovo a produzioni internazionali, e  Giulio Base  per qualche istante fulmineo), mentre nella parte del rapito incontriamo nuovamente (dopo il quasi esordio premiato a Venezia col la coppa Mastroianni per il tenero Charlie Thompson di Andrew High) il biondo efebico e glabro  Charlie Plummer , capello lungo e boccoloso, vestito in modo eccentrico come un modello da tarda dolce vita (invero il ragazzo funziona piuttosto bene nella parte del nipote rinnegato dal vecchio avido nonno).

Quanto alla tanto dibattuta scelta di sostituire  Kevin Spacey , ormai condannato al rogo come ai tempi delle streghe, e messo al bando dal solito triste e sconcertante perbenismo americano, la scelta caduta sul vecchio ed infaticabile  Christopher Plummer , se da un lato dimostra una gran tenacia e dinamismo da parte del regista Scott nel dover rigirare le molte scene che coinvolgevano il personaggio di Spacey – dinamismo che si aggiunge a quello dell’attore ormai quasi novantenne – c’è anche da dire che Plummer, ormai così anziano, stona platealmente nelle brevi ma fondamentali scene dell’avventura petrolifera dell’uomo allocata a fine anni ’40: “l’impresentabile” Spacey, decisamente più giovane, era decisamente più adatto a ringiovanire e ad invecchiarsi per coprire una parte che spazia nell’arco di oltre trent’anni. Ogni resto di confronto è inutile e solo da indovinare, ma da evitare per non alimentare altri strascichi a questa odiosa vicenda inutilmente discriminatoria, figlia di biechi calcoli commerciali che puntano sull’immarcescibile tendenza al puritanesimo più ottuso ed indiscriminato, che ha già tracciato in passato tristi capitoli discriminatori proprio nel paese delle libertà più conclamate e strombazzate.

Infatti tutto il resto è, probabilmente, solo ipocrisia e calcolo commerciale: circostanze e polemiche, decisioni riparatorie, manovre epurative con cui non concordo e che mi lasciano perplesso e sconcertato.

Ridley, da bravo yankee (pur di natali britannici) innamorato della sua Giannina (Scott, ex Facio, mogliettina premurosa ed amata che si occupa anche di produzioni con la “Giannina Production”), non manca nemmeno stavolta di coinvolgere la piacente consorte in un cameo (di fatto inutile, e ridondante come solo certi americani sanno essere, inopportuno, sciocco come tutti gli altri avvenuti in passato, ed evidenza più eclatante della reiterata stupidità americana, almeno quando si tratta di ostentare  valori della sana solidità della famiglia, la base obbligata e punto di partenza per molti indiscutibile, inevitabile, obbligato, che dovrebbe costituire piuttosto pensiero interiore e non ostentazione manierata. Basti considerare l’ostentazione patetica reiterata ed obbligatoria degli stessi presidenti americani nel portarsi sempre appresso l’inutile ridondante – se non kitch – tutte a parte Michelle – first lady di turno).

Detto questo Scott mi scade come uomo, ma resta – nonostante questo episodio di sostituzione di interpreti degno di un fosco processo da inquisizione – un gran direttore cinematografico: le scene di azione, l’impostazione grandiosa e molte inquadrature sono davvero riuscite, potenti e di grande impatto visivo.

Il film zoppica in molti frangenti e situazioni a livello di scrittura, e il rimescolamento di carte e lo scompiglio di cui sopra, per quanto ammirevole dal punto di vista tecnico (non certo morale), alla fine si nota anche a seguito di un montaggio certamente complicato, aggravato da una vicenda già di suo piuttosto poco lineare e decisamente complessa. 6/10

Alien: Covenant è  un “sequel di un prequel” sin troppo filosofico, che si riappropria dei ritmi e della tensione dei primi due capitoli, senza rinunciare a riflettere su come il miracolo della “creazione” possa indurre anche la macchina più inappuntabile e precisa, ad invidiare ma mortalità e l’imperfezione.

Quanto le macchine, spesso perfette ed invincibili, riescano ad invidiare all’essere umano caduco, fragile ed impreciso, la spontaneità, la capacità di scegliere, di sbagliare, di raddrizzare il tiro senza una vera programmazione, ma grazie all’istinto che conduce verso la soluzione più azzeccata, quella a prima vista tralasciata – è cosa nota e i capisaldi della fantascienza cinematografica, da 2001 di Kubrick in avanti, ce lo ripetono e confermani con costante assiduità.

La macchina – così perfetta e consapevole di tale sua caratteristica da scegliersi come nome autocelebrativo, ma di fatto pertinente – e non a caso immodesto – il David della statua che celebra, meglio di ogni altra raffigurazione, l’armonia della completezza delle forme – si incanta qui anche davanti al fenomeno della “creazione”.

E perde letteralmente la testa, e la capacità – ampiamente programmata nelle memorie interne – di discernere il bene dal male, inventandosi davanti allo spettacolo di una nascita – che anche in formato di temibile, micidiale alieno, riesce comunque a comunicare impotenza ad una creatura che invece ambisce ed è creata per raggiungere, senza riuscirci – la perfezione.

Quando l’astronave Covenant, impegnata in un viaggio settennale con oltre 2000 uomini addormentati in attesa di raggiungere la meta di una nuova colonizzazione, danneggiata da una pioggia di detriti solari, trova scampo….si fa per dire…su un pianeta lussureggiante e ameno (lo stesso che faceva da teatro e centro d’azione del gruppo di scienziati finiti maluccio a seguito della missione ricognitivo-scientifica della Prometheus) i guai seri iniziano anche per gli occupanti della navicella di perlustrazione scesa in quel frangente a “sondare il terreno”.

L’androide saggio che li accompagna e li protegge, scampato assieme a pochi altri ad un attacco di un piccolo alieno fuoriuscito dallo stomaco di un malcapitato nelle macabre modalità che ben conosciamo (ma che non ci stancheremo giammai di vederci riproposte….e di questo Scott è ben conscio!), troverà a confrontarsi col David suo gemello predecessore, meno sofisticato certo, ma più libero di pensare ed agire, e come tale più esposto ai condizionamenti di una volontà che sfugge la regola per trovare la soddisfazione personale e l’appagamento “umano” irrinunciabile.

Con Covenant, “sequel del prequel” che fu Prometheus, sempre di Scott, il gran regista ottantenne mette da parte la filosofia di vita che animava la puntata precedente, algida e riflessiva in modo tale da far storcere il naso ai puristi della saga ufficiale, una delle poche a non aver mai perso smalto nonostante gli svariati, ma sempre illustri, cambi di regia, e si concentra sull’azione, sulla caccia, sulla tensione che si legge sul volto dei protagonisti e dei superstiti che cadono a terra inesorabilmente uno dopo l’altro.

E Scott in questo (ma non solo in questo), è un maestro senza rivali.

Il cineasta ci conduce su percorsi noti, che tuttavia amiamo ripercorrere lungo varianti scenografiche avvincenti e suggestive, senza per questo dimenticarsi di centrare il bersaglio puntato stavolta non tanto (o non solo)  sulla lotta per la sopravvivenza, o sulla lotta tra due madri che difendono le reciproche creature (la genialata di Aliens di Cameron), ma sul miracolo della “creazione”.

Una circostanza permessa ad ogni essere vivente, anche ad un mero parassita come l’alieno, ma non certo alla macchina, che per questo, frustrata, muove le sue scaltre lungimiranti pedine sino ad una doppia vendetta cruciale.

Scott, o la produzione di cui saggiamente il cineasta si circonda, azzecca pure il cast, ove accanto al duplice Michael Fassbender – macchina obsoleta ed incontrollata da una parte, e razionale ma più prevedibile e vulnerabile nel suo prototipo riveduto e corretto, che costituisce il collante dei due ultimi episodi “preparatori” della saga – c’è una nuova donna tosta che non ci fa rimpiangere  (eccessivamente) l’indimenticabile Ripley-Sigourney.

Si chiama Katherine Waterson , figlia del sempre troppo sottostimato Sam, e bellezza che, al pari della Weaver, si riconosce e valuta appieno poco per volta, fino ad apprezzarla e a rendercela unica in modo ben più definitivo di certe bellezze canoniche, indiscutibili, ma pure in fondo assimilabili e sin troppo surrogabili, di cui è sin troppo pieno il cinema di oggi.

L’abbiamo già vista ed apprezzata con altri grandi autori (io la ricordo magnifica con Paul Thoma Anderson), e la rivedremo molto spesso, tanto è fitto il suo calendario di apparizioni, al cui confronto il già incandescente ritmo lavorativo del divo Fassbender, o dello stakanovista James Franco (citato non a caso, dato che compare in un cameo), sono quasi poca cosa.

Alien: Covenant è, a differenza del sin troppo maturo e celebrativo (ma validissimo) Prometeus, ciò che veramente vogliamo vedere dal film di fantascienza teso e mozzafiato che Ridley Scott ha avuto il merito di regalarci nel 1979, creando le basi per una saga che, pur passata di mano ogni volta, ha saputo evolversi oltre ogni ipotizzabile dignità ed originalità, ritrovando quindi il suo autore originario.

Quel Ridley Scott che, ripartendo dall’inizio, riesce a chiudere a far “quadrare il cerchio” nel migliore e più spettacolare dei modi ipotizzabili.8/10

Chi meglio di Ridley Scott può dire (nuovamente) la sua sulle dinamiche di un duello, quando sono trascorsi ormai quasi 45 anni dal suo folgorante esordio, avvenuto proprio con I duellanti?

Già avvezzo a giostrarsi su contesti storici complessi che richiedono ingenti sforzi di ricostruzione, seppur ora più a livello di grafica computerizzata e dunque virtuale, piuttosto che scenografico/artigianale, l’ottantaquattrenne dinamico cineasta che, come Spielberg, ormai si muove dirigendo due film alla volta senza sosta, probabilmente anche per una questione di costi fissi (dopo questo colossal, sarà la volta del blasonato House of Gucci, sempre con Adam Driver in testa al cast) si muove a suo agio con scene grandiose e di largo respiro.

Le stesse, ora più elaborate, che ci fecero emozionare a fine ’90 col Gladiatore, che ritrovammo ne Le crociate e, in parte, pure in Robin Hood.

La sceneggiatura inoltre si occupa di un caso singolare, assai attinente e pertinente allo scottante contesto contemporaneo di questa epoca di “me too” che ha fatto seguito agli scandali legati al nome di personaggi discutibili come il produttore e brutalizzatore con ricatto Weinstein e di altri celebri uomini dello star system hollywoodiano e non, e, più in generale, dando vita a comprensibili fenomeni di rivendicazioni di parità di trattamento e di invito a porre fine alle omertà sulle violenze subite dalle donne, da parte dell’altro sesso.

Qui la storia è esemplare ed sufficientemente documentata da fatti storici, in grado di poterla ricostruire senza eccessivo ricorso a licenze narrative. Tuttavia la storia di due nobiluomini amici per la pelle al punto da salvarsi la vita reciprocamente in battaglia, ma poi già divisi da questioni di eredità legate al matrimonio di uno dei due con la bella figlia di un possidente terriero, scatena una sfida all’ultimo sangue che ha come oggetto del contendere la moglie dell’uno, una volta che costei accusa l’ex amico del marito di averla violata brutalmente.

Lui nega e lo sciocco re decide di far giudicare la sorte divina, in quello che verrà riconosciuto come l’ultimo duello ufficiale a cui si sarebbe ricorso per dirimere questioni di onore come quella. Scritto dalla nota sceneggiatrice  Nicole Holfcener  assieme al duo di dritti & bistecconi Damon+Affleck, che hanno anche l’ardire di comparire rispettivamente come co-protagonista e secondo ruolo, ma di tutto rilievo, il film tecnicamente si rivela perfetto, per quanto di puro mestiere e mai emozionante.

Ma sono i personaggi che proprio non funzionano: Matt Damon che si muove come John Wayne, Ben Affleck biondo che fa davvero ridere…la donna contesa con le sue labbra pittate anzi scolpite dal migliore male-up artist sul mercato. E poi dialoghi assurdi qualora contestualizzati in un periodo storico così lontano.

Ci vorrebbe il rigore e lo scrupolo di un Annaud (vedi Il nome della rosa, che fece scandalo per la mostruosità con cui venivano caratterizzati i personaggi coinvolti nella vicenda) per rendere più verosimili queste sontuose trasposizioni, troppo superficialmente adattate al linguaggio, al modo di fare e di comportarci di oggi, in evidente e stridente contrasto con la realtà storica del contesto storico contemplato.5/10

Anche i ricchi – ormai si sa dai tempi della celebre telenovela – piangono…. anzi si disperano, si massacrano tra di loro per conquistare la supremazia che altrimenti un loro rivale porterebbe via loro con altrettanta determinazione.

E nella “dinasty” Gucci si dannano e disperano, si distruggono uno con l’altro per mantenere la maggioranza di quella che fu, con i capostipiti Rodolfo ( Jeremy Irons che traferisce la innata classe sul suo personaggio di vero imprenditore) e Aldo ( Al Pacino , superlativo nel ruolo di azzeccagarbugli infido ma tutt’altro che stupido), una delle maison d’eccellenza, quintessenza del prodotto di lusso italiano più esclusivo.

I problemi iniziano con le nuove generazioni: il folle Paolo (un Jared Leto sempre più mimetico ed irriconoscibile, dallo squittire stridulo e dalle moine un po’ forzate), a cui manca il buon gusto, oltre che qualche rotella, ma si ostina a voler fare il designer, e Maurizio (un Adam Driver da manuale per la freddezza e l’apatia meschina che riesce a fare trapelare dal personaggio che impersona), nerd senza carattere che ambirebbe a dirigere, ma non ne ha le palle e solo una giusta intuizione: affidare la maison all’estro artistico e all’approccio sexy di un giovane ma già affermato Tom Ford.

Queste ultime, ovvero le palle, le possiede la giovane e formosa Patrizia (una Lady Gaga di burro, mimetica e perfezionista come le si conviene), una arrivista e mantide destinata a fare da contabile nella ditta di trasporti paterna, non fosse così scaltra ed ambiziosa da comprendere al volo che quell’imbranato spilungone senza carattere di Maurizio incontrato per caso ad una festa, ella non deve e non può permettersi di lasciarselo scappare.

Il resto è una “dinasty” coi fiocchi, che prosegue tra colpi bassi tra cugini debosciati, zii scaltri ma isolati ed inermi, e una cognata con le palle, tanto da arrivare a vendicarsi dell’abbandono del marito con la “pena capitale”, fatta eseguire da due loschi killer dietro contatto di una maga di fiducia (Salma Hayek).

Trasposto dal romanzo omonimo di Sara Gay Forden , a sua volta ispirato alle vicende di cronaca e processuali che riempirono i rotocalchi a seguito dell’uccisione di Maurizio Gucci ad opera di un killer, che si scoprì ingaggiato dalla ex moglie Patrizia, House of Gucci è un filmone a largo budget che permette ancora una volta all’ottantaquattrenne tenace ed instancabile Ridley Scott di impegnarsi in una sontuosa ricostruzione degli ambienti chic e potenti di una Italia dell’alta imprenditoria e della moda da fine anni ’79 a metà anni ’90.

Le scene degli esterni sono fantastiche e il punto forte dello stile di Ridley Scott, che si attornia di un cast perfetto e dirige una storia che, pur sopra le righe, rispecchia una versione attendibile dei fatti, senza risparmiare nessuno dei loschi elementi coinvolti.

Gli attori, tutti fantastici, tra abili trasformisti e interpreti di razza, Al Pacino è ancora una volta una spanna sopra i migliori, c’è nella parte di Aldo Gucci potrebbe, anzi dovrebbe riuscire ad ottenere non solo una nomination, bensì il premio agli Oscar come miglior interprete non protagonista.

Lady Gaga si impegna con tutte le risorse, appropriandosi e facendo suo un personaggio controverso, sgradevole non meno degli altri da cui cerca di emergere: una protagonista losca ed arrivista verso cui l’impostazione narrativa ha la lungimiranza di non pretendere di suscitare condiscendenza.

La perfezione tecnico-organizzativa che ancora una volta contraddistingue l’impronta Scott, fa nuovamente un po’ cilecca sui dialoghi (basti ricordare il devasto imbarazzante che flagella la valida direzione artistica del sin troppo lodato e di poco precedente film di Scott, ovvero quel The last duel che vede al centro del contendere i due sfidanti nobiluomini francesi trecenteschi che si esprimono con un linguaggio attualizzato che si traduce in frasi degne di due avvocati o uomini d’affari dei giorni attuali).

Nella cui versione originale di questo House of Gucci, appare risibile – soprattutto se ascoltata da noi italiani – la tendenza dei vari protagonisti, con in testa la Reggiani/Lady Gaga, ad iniziare le frasi con una parola o frase fatta in italiano maccheronico, per poi proseguire in inglese come se nulla fosse, infischiandosene della questione idiomatica, ma sottolineando la parlata da emigrato italiano che nulla ha a che vedere col contesto geografico in cui si svolge la vicenda.

Sarebbe stato allora più onesto e verosimile mantenere tutto in un inglese corrente senza inflessione alcuna evitando la solita ingenua, disarmante superficialità qualunquista made in Usa, che vede il mondo fuori dai suoi confini come schiavo e succube di luoghi comuni banali come pizza e mandolino per noi italiani, o croissant, foie gras e baguette sotto l’ascella per i francesi.

Splendida la colonna sonora italiana ed internazionale che accompagna sfilate e momenti di una sfida per la supremazia.

Tra i pezzi coinvolti spicca “Una notte speciale” di Alice, e nel finale, una hit di Tracy Chapman in duetto nientemeno che col grande Pavarotti: la splendida “Baby, can i hold you tonight”. 6/10

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